giovedì 28 luglio 2011

Potere e giustizia nell’opera di Gabriel García Márquez

1. Se si ritiene che il potere vada studiato analizzando “le forme regolate e legittime nel loro centro, in quelli che possono essere i loro meccanismi generali ed i loro effetti costanti” (M. Foucault), deve anche convenirsi che l’opera letteraria di Márquez resti in via di principio estranea ad ogni rappresentazione del potere. Se si ammette, al contrario, che il potere debba essere spiegato nella sua dimensione ascendente, “a partire dalle tecniche e dalle tattiche della dominazione”, e cioè osservando come esso circoli a prescindere dalle “produzioni ideologiche” (M. Foucault), allora può anche concludersi che l’intera opera di Márquez altro non sia che un’unica e incessante riflessione sul potere; la cui altilenante “credenza nella legittimità” appare in condizione di aprire alla coesistenza di due differenti e spesso confliggenti modelli: quello tradizionale e quello carismatico (M. Weber).

L’ambiguità delle convinzioni dell’obbediente, che si riflette nei meccanismi e nella coesistenza dei tipi di potere, è un habitus mentale ed è figlia dell’impossibilità di conciliare la solidarietà con la solitudine: “la solitudine” – afferma Márquez – “si presenta come l’opposto della solidarietà … e questo è il punto che acquista già quasi un carattere politico e che perciò trovo interessante”. Si tratta di una solitudine “collettiva” e non “metafisica”, “lirica” e “individuale”, “la quale tuttavia proprio per il fatto di essere tale, marca l’individuo uno per uno” (G. G. Márquez). Essa è “inabilità associativa, indifferenza e indolenza”; dappocaggine e inettitudine; distorsione della realtà e fuga (C. Segre).

Se sul piano più propriamente politico l’assenza di solidarietà tronca qualsiasi “possibilità di sviluppo” della storia e favorisce “l’azione degli sfruttatori prima, degli imperialisti e dei dittatori locali dopo” (C. Segre), è pur vero che, involontariamente e inconsapevolmente, è proprio il tratto anarchico di ogni solitudine a soggiogare e piegare il potere, condannandolo per sempre ad una funesta dimenticanza. È quel che accade ad esempio ne La mala ora, ove il potere dell’alcade, inviato a Macondo con “l’ordine di sottomettere il paese ad ogni costo”, si infrange contro il mistero delle pasquinate: ogni mattina contro i muri del paese vengono affissi manifestini, che svelano i retroscena più vergognosi della vita privata degli abitanti. Si tratta di avvenimenti già largamente noti, certo; ma le pubbliche accuse gridate acuiscono giorno per giorno il dramma e disorientano l’autorità, fiaccandone il potere. “Voglio che tu tiri le carte” – chiede l’alcade a Cassandra – “per vedere se si può sapere chi combina tutto questo casino”. E Cassandra, confessando d’aver già interrogato il passato, rivela: “È tutto il paese e nessuno”. Così, in un pomeriggio qualunque, “inconsapevole della invisibile ragnatela che il tempo gli stava tessendo tutt’attorno”, all’alcade sarebbe stata sufficiente “un’istantanea esplosione di chiaroveggenza” per comprendere “chi fosse il sottomesso e chi il soggiogatore”; di comprendere, cioè, che la verità del potere sta, in fondo, nella possibilità che esso si faccia comunicazione. Il verbo potere – si potrebbe dire parafrasando Roland Barthes – “non esiste all’infinito (se non per artifizio metalinguistico): il soggetto e l’oggetto formano un tutt’unico con la parola che viene proferita”. Nel dialogo che sorregge il rapporto autorità-libertà il dominante “finge d’ignorare il fondamento d’essere e di comunicazione che sostiene la sua disperazione e il suo orgoglio”: egli “vuole essere solo per sé, ma, di fatto, cerca d’essere riconosciuto signore da qualcuno” (M. Merleau-Ponty). E il potere, allora, muore di fronte alla negazione della possibilità di tale riconoscimento e non sempre nell’urto con la negazione del riconoscimento stesso ovvero quando se ne ponga in discussione la legittimità dell’esercizio: “è il mio linguaggio, ultimo appiglio della mia esistenza, che viene negato, non la mia domanda”; per la domanda, posso aspettare, rinnovarla, formularla in altro modo; ma, se vengo privato del potere di domandare, io sono come morto per sempre” (R. Barthes).

2. La solitudine collettiva è fondamento e limite del potere politico. Nei Paesi dell’America latina, alla liberazione dal dominio spagnolo e portoghese corrispose l’ascesa al potere dei caudillos, di avventurieri ambiziosi “che con magniloquenza andavano proclamando princìpi democratici” (R. M. McIver). La maggior parte della popolazione era vissuta fino ad allora in una specie di “feudalesimo arretrato”, in quanto le condizioni economiche erano sfavorevoli, l’analfabetismo dilagante e il ceto medio del tutto inesistente. Essa, in breve, non aveva alcuna “filosofia di vita” da contrapporre alla “tradizione autoritaria” pregressa. I caudillos, d’altra parte, erano per lo più “generali di eserciti «rivoluzionari», uomini usciti dalla classe latifondista, senza alcuna idea dei metodi democratici” (R. M. McIver), facilmente inclini a smarrire il senso della propria “missione” e a trasformarsi in “opportunisti”. Tale stato di cose finì per creare uno spazio incolmabile tra la sfera della libertà e quella dell’autorità. Un divario che consentì al dittatore di esercitare retrivamente il proprio potere allo scopo di “ammassare ricchezze” (R. M. McIver); che emarginò il popolo dalla scena politica, gettando il Paese in un nuovo e terribile feudalesimo; che favorì l’impossibilità della comunicazione e l’incomprensione del sociale; e che alla lunga rese persino effimero e solo il potere.

Non è un caso che sia proprio la solitudine del potere ad attraversare in filigrana le vicende narrate da Márquez. Quella solitudine che lambisce i ricordi del colonnello, il quale, dopo aver preso parte alla guerra civile compiendo imprese memorabili, attende ora inutilmente l’arrivo della pensione, consumandosi lentamente nella speranza che il suo gallo vinca la battaglia; che guida tristemente Simón Bolívar nel suo ultimo viaggio lungo il fiume Magdalena, e che lo fa rabbrividire di fronte alla inattesa rivelazione “che la folle corsa fra i suoi mali e i suoi sogni arrivava in quel momento alla meta finale”; che veglia ancora sulle giornate del dittatore centenario, il quale, chiuso in un palazzo immenso e triste e pieno di vacche, si sente ora “oltraggiato e sminuito dall’inclemenza della morte di fronte alla maestà del potere”.

3. Se si sostiene che l’opera di Márquez si lasci agevolmente imprigionare entro la corrente letteraria del c.d. “realismo magico”, deve anche ammettersi che sia assolutamente paradossale tentare di rinvenire in essa una data concezione della giustizia e che sia finanche superfluo interrogarsi sulle specifiche connessioni che questa presenti con le forme di esercizio del potere. È

evidente, infatti, che se i romanzi e i racconti di Márquez costituissero solo un’opera di falsificazione della realtà, anche la giustizia si configurerebbe solo come un accidente della storia narrata o, nei migliori dei casi, come un fatto incosciente e strumentale alla illustrazione dei personaggi e dei luoghi descritti. Come ha ricordato lo stesso Márquez, però, tutte le sue opere “corrispondono a una realtà geografica e storica”, che “non hanno a che fare con il realismo magico e tutte le cose che si sono dette”. In tale contesto, il problema della giustizia e del potere trascina con sé anzitutto quello del metodo ossia delle strategie euristiche utilizzabili nell’indagine, e la cui validità si appoggia su un’elementare considerazione: l’America latina non è l’Europa. La sua realtà quotidiana “è piena di cose straordinarie” e, “a differenza di ciò che pensano gli europei, (essa) «non si esaurisce nel prezzo dei pomodori o delle uova»”. “L’immagine di un mondo selvaggio e innocente”, che le rivoluzioni degli uomini hanno trasformato, ossia guarito o distrutto per sempre, è un’idea tutta occidentale (B. Arpaia); una verità accettabile solo postulando il “principio della serie temporale secondo la legge della causalità” (I. Kant) e plausibile solo aderendo ad un processo dimostrativo, che, facendo leva sull’intuizione chiara ed evidente delle cose, sulla composizione analitica e sulla ricostruzione sintetica, intenda “far tabula rasa del passato” (G. De Ruggiero). Per tale ragione, in Márquez la giustizia e il potere si presentano come fenomeni reali, ma non del tutto razionalizzabili; fatti persino semplici eppure non completamente decifrabili. E l’impossibilità di razionalizzare e decifrare i fenomeni rende anche sterile la lezione illuminista. Inutile la distinzione tra pubblico e privato. Superfluo ogni sforzo volto a separare il terreno dal divino e goffo ogni tentativo che voglia dimostrare come tra il dialogo dei vivi con i morti e dei morti con Dio possa esservi soluzione di continuità. Tutto questo, infine, giustifica una rappresentazione degli eventi che dà respiro alla simultaneità dei punti di vista e che predilige il ricorso ad un tipo di scrittura, la quale, scomponendo e ricomponendo la narrazione, insiste prepotentemente sull’iperbole, sull’analessi, sullo slittamento temporale (C. Segre).

4. Si è sottolineato come nei romanzi di Márquez “gli eventi non sono mai rappresentati con pretese di oggettività, ma anzi accettando senza riserve le amplificazioni e le stilizzazioni di chi in essi è implicato o ad essi è interessato” (C. Segre). In Cronaca di una morte annunciata, lo scrittore prende senz’altro nota degli accadimenti; registra quanto i protagonisti hanno da raccontare; acconsente a che tutte le voci interagiscano tra loro. Ciò nonostante, però, nel lasciar emergere lentamente ogni singola verità, egli finisce per puntare il dito contro qualcosa di preciso. Santiago Nasar è accusato di aver deflorato Ángela Vicario, promessa sposa a Bayardo San Román. I fratelli di Ángela si preparano alla vendetta, attendono Santiago Nasar nella piazza principale del paese e sotto gli occhi della popolazione attonita e inerme consumano il delitto.

Ebbene, se la storia è scontata, altrettanto non può dirsi del senso ultimo di rinuncia e di desolazione che dalle sue pieghe traspare. Sul banco degli imputati non siede l’ignaro Santiago Nasar, ma gli abitanti del villaggio, che con il proprio ambiguo comportamento non hanno contribuito certo a far chiarezza sulla turpe azione commessa dall’accusato. Parlando, essi hanno impedito che la verità venisse a galla; tacendo, essi hanno reso possibile l’assassinio. In altre parole, sembrerebbe che per lo scrittore disonore, colpa e delitto costituiscano i tratti essenziali di un mistero che la collettività – e il romanzo con essa – intende fermamente preservare, anziché risolvere (B. Arpaia). Un mistero “politico” che presenta radici scoperte e si alimenta di quella “solitudine collettiva” di cui si è già discorso. Un mistero giuridico che è reale e che proprio per questo sa porsi a fondamento e limite di una giustizia tutta particolare.

ENZO DI SALVATORE

mercoledì 27 luglio 2011

Regno Unito ed Unione Europea: lo European Union Act 2011

Negli ultimi mesi, il Parlamento inglese è stato impegnato a discutere l’approvazione di un documento di fondamentale importanza per l’assetto dei rapporti tra Regno Unito e Unione Europea: lo European Union Act, che è giunto alla fase finale ricevendo il Royal Assent il 19 luglio 2011, dopo mesi di “ping-pong” tra le due Camere.
L’ultima decisione del Parlamento in materia risale allo European Communities Act del 1972, che introdusse nel sistema giuridico inglese un principio importantissimo: quello della diretta applicabilità del diritto comunitario. L’art. 2 dell’ECA recita: “tutti i diritti, poteri, responsabilità e restrizioni derivanti dai Trattati e tutti i rimedi e le procedura di volta in volta previsti dai Trattati sono, senza necessità di ulteriore promulgazione, efficaci nel Regno Unito e devono essere quindi riconosciuti e applicati”. Indiscussa è la rilevanza di una simile disposizione in un ordinamento giuridico come quello inglese caratterizzato dall’assenza di una Costituzione scritta.
L’adesione della Gran Bretagna al Trattato di Roma è avvenuta proprio attraverso questa legge di recepimento, emanata dal Parlamento al fine specifico di incorporare il Trattato stesso. Ma poiché si tratta di una legge che non ha uno status diverso da quello di ogni altra legge, risulterebbe anch’essa soggetta alla dottrina dell’abrogazione implicita, in forza della quale una legge successiva contenente disposizioni che si pongono in contrasto con una legge anteriore abroga implicitamente quest’ultima. Di opinione diversa è Lord Justice Laws, il quale in occasione del caso Thoburn v. Sunderland City Council - conosciuto anche come “caso dei martiri del sistema metrico” - avanza un’illuminante teoria: secondo Laws, esiste nell’ordinamento giuridico inglese una gerarchia di fonti normative, per cui le leggi che riguardano il rapporto giuridico tra cittadino e Stato o i diritti costituzionali fondamentali, costituiscono una categoria speciale e superiore di leggi (distinte dalle leggi ordinarie), definite “highest laws”, che non possono essere abrogate dal Parlamento e quindi sono immuni anche dalla teoria dell’abrogazione implicita. In questa categoria rietrano la Magna Charta, il Bill of Rights del 1689, l’Act of Union, il Reform Acts. Lo European Communities Act appartiene certamente a questa famiglia: ha inglobato l’intero corpus di diritti e doveri comunitari e ha avuto effetti profondi su tutte le dimensioni della vita quotidiana. L’ECA è, in forza del common law, una legge costituzionale.

Il Regno Unito fa quindi un passo indietro con lo European Union Act 2011.
Il punto nodale della legge è la previsione del ricorso a un referendum popolare nell’ipotesi di proposta di trasferimento di poteri e competenze dalla Gran Bretagna all’Unione Europea attraverso la creazione di un nuovo Trattato o la modifica dei Trattati esistenti. Si mira sostanzialmente a rafforzare le procedure di accettazione o ratifica delle decisioni dell’UE: questo vuol dire che il Governo non potrà trasferire poteri senza il consenso pubblico.
Molti in Gran Bretagna si sono sentiti tagliati fuori dal processo di sviluppo comunitario e dalle decisioni prese in tale ambito in loro nome. Lo EU Act contribuirà, secondo il Governo, a ricostruire la fiducia e a riavvicinare le persone alle decisioni involgenti i rapporti comunitari.
L’Act include anche una discussa Section 18 che ribadisce il preesistente principio per il quale il Parlamento è assoluto e sovrano (“what a sovereign Parliament can do, a sovereign Parliament can always undo”) e che la norma comunitaria produce effetti nel Regno Unito solo in virtù di una legge parlamentare che riconosca ad essa applicabilità ed efficacia diretta.
Il Governo all’inizio aveva sottolineato questo principio e affermato che la Section 18 doveva essere inclusa nel progetto di legge (bill) per affrontare il problema della futura erosione del principio di sovranità parlamentare da parte delle courts. Ma alcuni deputati conservatori hanno notato che l’affermazione del Governo - in base alla quale l’Act rafforza il principio di common law per cui la legge europea produce effetti in Gran Bretagna solo attraverso la volontà del Parlamento e solo in virtù di un atto del Parlamento - contraddice la vera essenza del common law. A questo riguardo, il deputato Bernard Jenkin ha asserito che “the common law is a judge-made law. The judges are its authors and its guardian. They may change it whenever they see fit”. Il Governo dovrebbe coinvolgere più attivamente i giudici sulla base della logica considerazione che, se il Parlamento è sovrano in forza di una decisione delle courts, queste potrebbero facilmente cambiare idea.
La così definita “sovereignty clause” riflette quindi la natura dualistica del modello costituzionale proprio del Regno Unito in base al quale non è accordato alcuno status speciale ai Trattati: i diritti e i doveri in essi contenuti producono effetti nell’ordinamento interno solo attraverso la promulgazione di un’apposita legge che dia ad essi efficacia, sebbene i Trattati dell’UE e le sentenze delle Corti europee prevedano che talune disposizioni dei Trattati, strumenti giuridici e talune sentenze debbano avere applicazione o effetto diretto all’interno di tutti gli Stati membri.
È importante sottolineare che la Section 18 è una clausola declaratoria di una posizione giuridica esistente: i diritti e le obbligazioni assunti dal Regno Unito al momento dell’ingresso nell’Unione Europea rimangono intatti e non c’è pertanto un’alterazione del preesistente rapporto tra fonte comunitaria e legge inglese. In particolare, non viene meno il principio di supremazia del diritto europeo, sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia prima dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità Europea (vedi sentenza n. 6/64 Costa v. ENEL); il Parlamento ha accettato questo principio promulgando lo European Communities Act del 1972. Nella sua opinione a proposito del caso R v. Secretary of State for Transport, ex p. Factortame (No. 2), Lord Bridge afferma: “secondo quanto stabilito dalla legge del 1972, è sempre stato chiaro che le courts britanniche, all’esito del giudizio, dovessero ignorare le norme di diritto nazionale che risultassero in contrasto con qualsiasi norma del diritto comunitario direttamente applicabile; ugualmente, quando le decisioni della Corte di Giustizia hanno riguardato settori della legislazione britannica, il Parlamento ha sempre lealmente accettato l’obbligo di apportare modifiche rapide e appropriate”.
Queste affermazioni evidenziano i limiti intrinseci della clausola 18 di fronte a due diverse rivendicazioni di sovranità, una nazionale e l’altra sovranazionale.
In realtà, l’idea di una sovereignty clause nel contesto delle relazioni con l’Unione Europea non è nuova. Una simile proposta fu avanzata durante il processo di approvazione dello European Communities Act 1972. Il Governo di allora si oppose a quest’idea e chiese il rigetto della clausola stessa.

Ora non resta che vedere quali saranno le conseguenze dell’Act nel contesto dell’Unione. Certo è che la diatriba tra Euroscettici più incalliti e Pro-Europeans non è destinata a dissolversi.

ELEONORA CHIERICI

(Londra, 27 luglio 2011)

venerdì 22 luglio 2011

I regolamenti nello Statuto della Regione Lombardia

1. Lo Statuto della Lombardia è stato uno degli ultimi ad essere approvato e ciò ha permesso agli esperti ed ai consiglieri lombardi di muoversi sulla strada tracciata dalla Consulta. La Commissione speciale per lo Statuto della Lombardia ha iniziato i propri lavori il 27 febbraio 2007 per regalare alla Regione un testo al passo coi tempi che rimpiazzasse quello approvato nel 1971. Dopo circa un anno il Consiglio Regionale lo ha approvato, in seconda lettura, a larga maggioranza.

2. Prima dell’entrata in vigore del nuovo Statuto, l’organizzazione ed il funzionamento della Regione Lombardia erano basati sul testo risalente al 1971. Ai sensi degli artt. 6 e 37 dello Statuto previgente, la potestà regolamentare e quella legislativa erano esercitate dal Consiglio regionale, che non poteva delegarle. Il Presidente della Giunta, invece, promulgava i regolamenti deliberati dal Consiglio (art. 33). In pratica, la potestà regolamentare e quella legislativa erano concentrate in capo al Consiglio. Inoltre, l’iter da seguire per la formazione dei regolamenti era pressoché identico a quello previsto per la formazione delle leggi. L’unica differenza era data dal controllo, che, per i regolamenti, era lo stesso degli atti amministrativi. Non solo. Il regolamento poteva essere impugnato dal Governo per conflitto di attribuzioni e dai privati di fronte al Tar, mentre le leggi regionali erano impugnabili esclusivamente in via incidentale o in via principale di fronte alla Corte costituzionale. Per tali motivi le Regioni hanno sempre privilegiato la legge rispetto al regolamento. Questo tema è stato affrontato anche in seno alla Commissione per lo Statuto lombardo. Gli statuti già approvati dalle altre Regioni sono stati oggetto delle relazioni degli esperti, dalle quali è emersa la preferenza per la soluzione mista, con la suddivisione del potere regolamentare tra i due organi regionali. Solo lo Statuto della Regione Abruzzo ha attribuito la potestà regolamentare esclusivamente al Consiglio regionale lasciando alla Giunta e ad ogni singolo consigliere il potere d’iniziativa. Lo Statuto approvato dalla Regione Puglia, invece, attribuisce alla Giunta il potere regolamentare, nella forma dei regolamenti esecutivi, di attuazione, di integrazione, nonché dei regolamenti delegati dallo Stato (art. 44, c. 1).
Dopo tante discussioni, la Commissione ha trovato una non facile soluzione di equilibrio, che vede, da un lato, l’attribuzione del potere regolamentare alla Giunta e, dall’altro, l’introduzione di alcuni contrappesi, volti a riequilibrare la posizione del Consiglio. In particolare, il parere obbligatorio che deve essere rilasciato dalla Commissione consiliare competente entro sessanta giorni, trascorso il quale s’intende favorevole.
La legge costituzionale n. 1/1999 ha modificato il secondo comma dell’art. 121 Cost. eliminando le parole “e regolamentari” e, per la prima volta, ha distinto tra promulgazione delle leggi ed emanazione dei regolamenti ad opera del Presidente della Regione. Le Regioni avevano interpretato la norma riformata nel senso di un’attribuzione automatica alla Giunta della potestà regolamentare, nonostante i vecchi statuti, fedeli all’art. 121 Cost., assegnassero la competenza al Consiglio. Sul punto si è espresso anche il Tar Lombardia con la sentenza n. 282 del 2002. Secondo i giudici del Tar ambrosiano l’attribuzione diretta della potestà regolamentare alle Giunte “non pare del tutto in linea con le regole che presiedono al sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, fondato, come è noto, sul principio di tassatività delle fonti primarie e per le fonti di rango secondario su quello di legalità”. A distanza di poco più di un anno, il Tar lombardo è intervenuto nuovamente: “Le modifiche apportate all’art. 121 Cost. dalla l. cost. 1/1999, infatti, hanno determinato l’abolizione della riserva di regolamento in capo al Consiglio regionale, ed hanno comportato una riformulazione della norma, la quale induce a ritenere che – a livello regionale – il potere regolamentare possa spettare sia al Consiglio che alla Giunta” (sent. 2385/2003).
Con la sentenza n. 313 del 2003, la Consulta ha rimesso ai nuovi Statuti la scelta relativa alla titolarità del potere regolamentare ripristinando la potestà consiliare.

3. L’art. 32, comma 2, dello Statuto impone agli atti regolamentari di fare sempre “espresso riferimento alla fonte da cui discendono”. In ossequio a tale principio, sono, quindi, esclusi i regolamenti “indipendenti”, che, com’è noto, regolano le materie in cui manchi la disciplina legislativa.
Gli artt. 41 e 42 elencano i regolamenti regionali che possono essere approvati dalla Giunta: a) di esecuzione e di attuazione di leggi regionali; b) di delegificazione; c) delegati; d) attuativi ed esecutivi di atti comunitari:
a) i regolamenti di esecuzione e di attuazione hanno la funzione di attuare e specificare quanto già disposto da una legge regionale;
b) per i regolamenti di delegificazione, secondo il modello di cui all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, è necessaria una legge di autorizzazione del Consiglio regionale, che stabilisca i principi e le norme generali regolatrici della materia e che disponga l’abrogazione delle disposizioni di legge con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento. Questi regolamenti sono stati al centro del dibattito in seno alla Commissione per lo Statuto. Il prof. D’Andrea ha sollevato qualche perplessità sulla reale esigenza di replicare modelli normativi, che hanno una specifica ragione d’essere a livello statale. Anche il consigliere Muhlbauer ha espresso le sue preoccupazioni temendo la morte del Consiglio con l’introduzione della delegificazione, che avrebbe portato ad un trasferimento del potere legislativo in capo alla Giunta. Queste preoccupazioni erano giustificate visto che, inizialmente, il progetto di Statuto prevedeva una riserva assoluta di legge in materia di diritti civili e sociali: “Per quanto di competenza della Regione” – si leggeva all’art. 39, comma 2 (poi 37, comma 2), del progetto – “la regolazione delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali è riservata in modo assoluto alla legge regionale”. Questa disposizione è stata scritta prendendo spunto dall’art. 117 della Costituzione, nella parte in cui si richiamano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. La riserva di legge è legata a tutta la sfera dei diritti civili e sociali, intesi come i diritti garantiti dal Titolo II (rapporti civili) e dal Titolo III (rapporti etico-sociali) della Costituzione. Una riserva di questo tipo risulterebbe omnicomprensiva e colpirebbe ogni intervento legislativo della Regione poiché ogni sua parte sarebbe riconducibile ai diritti garantiti in Costituzione. In pratica, se la Regione volesse approvare un atto che direttamente o indirettamente incida sul livello delle prestazioni sanitarie erogate dovrebbe, anzi deve, farlo con legge regionale. In questo modo il Consiglio fa amministrazione attraverso un atto legislativo ma che di fatto è amministrativo: è il noto fenomeno delle leggi-provvedimento. In sostanza s’impedirebbe alla Giunta di operare in concreto. Secondo Mangia, la Costituzione prevede già delle riserve di legge su questi diritti, per cui potrebbero emergere dei problemi. Ad es. l’art. 32 Cost. contiene una riserva relativa. Se la riserva regionale fosse interpretata come assoluta si rischierebbe di approvare degli atti conformi allo Statuto, ma che potrebbero non essere conformi all’art. 32 della Costituzione. A tal proposito, nella seduta del 5 marzo 2008 la Commissione ha trovato una soluzione di compromesso inserendo nell’art. 14, comma 1, tra le funzioni del Consiglio regionale, quella di “dettare con legge le norme di carattere generale inerenti alla garanzia dei diritti civili e sociali” e dunque una riserva relativa di legge regionale per questo oggetto. Con questa modifica è cambiata anche la rubrica che non è più riserva statutaria di legge regionale, ma potestà legislativa e regolamentare della Regione. Così viene fatta salva la competenza regionale a dettare con legge norme di carattere generale inerenti la garanzia dei diritti civili e sociali;
c) i regolamenti delegati sono quei regolamenti delegati dallo Stato alle Regioni in materie di sua competenza legislativa esclusiva. L’art. 117, comma 6, Cost., che riconosce allo Stato la facoltà di demandare alle Regioni l’integrazione e l’attuazione di dette leggi, ha ricevuto l’avallo della Consulta, in particolare con la sentenza n. 2 del 2004.
In merito ai regolamenti delegati, lo Statuto della Lombardia prevede una disciplina del tutto peculiare rispetto agli altri Statuti. All’art. 41, comma 3, lo Statuto lombardo stabilisce che tali regolamenti siano adottati dal Consiglio regionale, il quale, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, può attribuire detta potestà alla Giunta, previo parere obbligatorio della Commissione consiliare competente. Come ha affermato Tarli Barbieri, detta previsione apre ad una sorta di “cogestione, potenziale, tra Consiglio e Giunta”. Secondo chi scrive, l’attenzione va posta sul parere della Commissione, al fine di evidenziare una notevole differenza con i regolamenti governativi. L’art. 17 della l. n. 400 del 1988 definisce l’iter da seguire per la loro emanazione facendovi rientrare anche il parere del Consiglio di Stato. Come sottolineato dal prof. Mangia nei lavori preparatori allo Statuto lombardo, la previsione di un parere della Commissione è assolutamente anomala nell’ordinamento italiano perché, di solito, è un organo tecnico che fornisce il parere affinché non sia politico, in quanto il regolamento per essere tale deve essere espressione della discrezionalità amministrativa. Non è un unicum nel panorama giuridico italiano. In merito all’adozione dei decreti legislativi, l’art. 14, comma 4, della l. n. 400 del 1988 prevede che qualora il termine previsto per l’esercizio della delega ecceda i due anni, il Governo sia tenuto a richiedere il parere delle Camere, che è espresso entro sessanta giorni dalle Commissioni permanenti competenti per materia. Dopodiché il Governo esamina il parere e lo ritrasmette, con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, alle Commissioni per il parere definitivo. Infine, non bisogna confondere i regolamenti delegati con quelli esecutivi. Questo tema è stato affrontato anche dalla Commissione speciale per lo Statuto della Regione Lombardia. Infatti, come emerge dalla lettura dei verbali, D’Andrea ha sottolineato che la differenziazione fra regolamenti delegati dallo Stato alla Regione e regolamenti esecutivi spiega la diversa ripartizione di competenza: gli uni al Consiglio, gli altri alla Giunta. I regolamenti provenienti dallo Stato “più importanti” di quelli che spettano alla Giunta;
d) per quanto riguarda la trasposizione del diritto dell'Unione Europea nell'ordinamento interno, la Regione Lombardia può adottare i regolamenti di attuazione ed esecuzione di atti dell'UE, nelle materie di sua competenza, al fine di dar seguito agli obblighi che discendono dall'appartenenza dell'Italia all'UE In seno alla Commissione per lo Statuto si è avuto un acceso dibattito anche in materia di politiche comunitarie (rectius: dell’Unione Europea). La riforma del titolo V, la Legge La Loggia (2003) e la Legge Buttiglione (2005) hanno innovato sensibilmente la disciplina. La riforma costituzionale ha ampliato la competenza delle Regioni prevedendo che, nelle materie di loro competenza, queste partecipino alla formazione degli atti normativi dell’Unione e siano competenti in ordine alla loro attuazione, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge statale (art. 117, comma 5, Cost.).
Tutto ciò ha inciso anche sullo Statuto della Lombardia. Infatti, l’art. 39, comma 1, stabilisce che “la Regione adegua il proprio ordinamento a quello comunitario anche attraverso apposita legge regionale, con la quale si provvede a dare diretta attuazione alla normativa comunitaria. La legge dispone inoltre che all’attuazione si possa provvedere nell’ambito dei principi da essa determinati con regolamenti regionali, indicando altresì gli atti normativi comunitari da attuare per via amministrativa”.
Alla fine la Commissione ha optato per la legge comunitaria regionale come disciplinata dall’art 39, quindi, attribuendo al Consiglio Regionale il compito di recepire la normativa europea. Il secondo comma di detto articolo, però, apre alla Giunta Regionale; ivi, infatti, si stabilisce: “La legge dispone inoltre che all’attuazione si possa provvedere nell’ambito dei principi da essa determinati con regolamenti regionali, indicando altresì gli atti normativi comunitari da attuare per via amministrativa”.

NICOLA PISCIAVINO

domenica 17 luglio 2011

Proposta di modifiche allo Statuto della Regione Abruzzo

Martedi 19 luglio 2011 il Consiglio regionale abruzzese discuterà le seguenti modifiche statutarie:

consigliere proponente SOSPIRI



Indice

Art. 1 (Modifica dell'articolo 17, comma 1, dello Statuto)

Art. 2 (Sostituzione dell'articolo 20, comma 1, dello Statuto)

Art. 3 (Modifica dell'articolo 21, comma 2, dello Statuto)

Art. 4 (Modifica dell'articolo 29, comma 4, dello Statuto)

Art. 5 (Sostituzione dell'articolo 33, comma 2, dello Statuto)

Art. 6 (Modifica dell'articolo 39, comma 2, dello Statuto)

Art. 7 (Sostituzione dell'articolo 40 dello Statuto)

Art. 8 (Sostituzione dell'articolo 85, comma 2, dello Statuto)

Art. 9 (Sostituzione dell'articolo 86 dello Statuto)


Art. 1
(Modifica dell'articolo 17, comma 1, dello Statuto)

1. Al comma 1 dell'articolo 17 dello Statuto le parole "una settimana" sono sostituite dalle seguenti: "dieci giorni".

Art. 2
(Sostituzione dell'articolo 20, comma 1, dello Statuto)

1. Il comma 1 dell'articolo 20 dello Statuto è sostituito dal seguente:

"1. Il Consiglio ha autonomia organizzativa, amministrativa, contabile e patrimoniale, che esercita a norma dello Statuto, delle leggi e dei regolamenti adottati sulla base dei principi fissati dalla legge.".

Art. 3
(Modifica dell'articolo 21, comma 2, dello Statuto)

1. Al comma 2 dell'articolo 21 dello Statuto sono aggiunte, in fine, le parole: "sulla base dei principi fissati dalla legge".

Art. 4
(Modifica dell'articolo 29, comma 4, dello Statuto)

1. Al comma 4 dell'articolo 29 dello Statuto sono aggiunte, in fine, le parole "secondo i casi e le modalità disciplinati dal Regolamento".

Art. 5
(Sostituzione dell'articolo 33, comma 2, dello Statuto)

1. Il comma 2 dell'articolo 33 dello Statuto è sostituito dal seguente:

"2. Il procedimento redigente non può essere utilizzato per l'esame dei progetti di legge relativi alla modifica dello Statuto, alla legge elettorale, alla legge comunitaria regionale, alla legge di approvazione del bilancio, del rendiconto e alla legge finanziaria.".

Art. 6
(Modifica dell'articolo 39, comma 2, dello Statuto)

1. Al comma 2 dell'articolo 39 dello Statuto le parole "la promulgazione" sono sostituite dalle seguenti: "l'emanazione".



Art. 7
(Sostituzione dell'articolo 40 dello Statuto)

1. L'articolo 40 dello Statuto è sostituito dal seguente:

"Art. 40
La qualità delle norme e i Testi unici

1. I testi normativi della Regione sono improntati a principi di chiarezza e semplicità di formulazione e al rispetto delle regole fissate dalla legge sulla qualità della normazione.

2. La legge di cui al comma 1 può prevedere, per materie determinate ed omogenee, la redazione di Testi unici regionali, fissando termini, principi e criteri direttivi.

3. I Testi unici compilativi sono approvati dal Consiglio con la sola votazione finale.

4. I Testi unici possono essere abrogati o modificati, anche parzialmente, solo in modo espresso.

5. La legge di cui al comma 1 e i regolamenti interni, del Consiglio e della Giunta, stabiliscono gli obblighi volti a garantire la qualità delle fonti normative e le modalità di formazione, approvazione e mantenimento dei testi unici.".

Art. 8
(Sostituzione dell'articolo 85, comma 2, dello Statuto)

1. Il comma 2 dell'articolo 85 dello Statuto è sostituito dal seguente:

"2. Il Consiglio regionale ed il Consiglio delle Autonomie locali possono nominare rispettivamente un Componente della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti. In sede di prima attuazione, ove il Consiglio delle Autonomie locali non sia ancora costituito, può provvedere il Presidente del Consiglio regionale su indicazione delle Associazioni rappresentative dei Comuni, delle Province a livello regionale.".

Art. 9
(Sostituzione dell'articolo 86 dello Statuto)

1. L'articolo 86 dello Statuto è sostituito dal seguente:

"Art. 86
L'indizione delle elezioni e l'amministrazione straordinaria della Regione

1. Nel caso in cui lo scioglimento del Consiglio regionale o la rimozione del Presidente della Giunta avvenga per atti contrari alla Costituzione, per gravi violazioni di legge o per ragioni di sicurezza nazionale l'amministrazione straordinaria della Regione è regolata dal decreto di cui all'art. 126, primo comma, della Costituzione che determina anche i termini per l'indizione delle elezioni.

2. Nei casi di annullamento delle elezioni, la Giunta regionale indice le nuove elezioni entro tre mesi, provvede all'ordinaria amministrazione di propria competenza e agli atti improrogabili da sottoporre a ratifica del nuovo Consiglio.

3. Al di fuori delle ipotesi contemplate dai commi 1 e 2, nei casi di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura:

a) le funzioni del Consiglio regionale sono prorogate, secondo le modalità disciplinate nel Regolamento, sino al completamento delle operazioni di proclamazione degli eletti nelle nuove elezioni limitatamente agli interventi che si rendono dovuti in base agli impegni derivanti dall'appartenenza all'Unione Europea, a disposizioni costituzionali o legislative statali o che, comunque, presentano il carattere della urgenza e necessità;

b) le funzioni del Presidente e della Giunta regionale sono prorogate sino alla proclamazione del nuovo Presidente della Regione limitatamente all'ordinaria amministrazione e agli atti indifferibili; in caso di impedimento permanente, morte e dimissioni volontarie del Presidente della Regione, le sue funzioni sono esercitate dal Vicepresidente.

4. Nei casi di cui al comma 3 le nuove elezioni sono indette entro tre mesi secondo le modalità definite dalla legge elettorale.".

mercoledì 13 luglio 2011

La Regione Abruzzo vuol rivedere il suo Statuto

È trascorso poco più di un decennio da quando il Parlamento italiano ha deciso di modificare il Titolo V della Costituzione, consentendo – tra le altre cose – che le Regioni italiane si dotassero di una nuova forma di governo: il Presidente della Regione, salvo che lo Statuto non disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Una volta eletto, egli procede alla nomina degli assessori. E se la carica di Presidente della Regione viene meno, gli assessori rassegnano le dimissioni e il Consiglio regionale si scioglie.
Questo modello, com’è noto, è stato recepito anche dalla Regione Abruzzo, che nello Statuto riscritto nel 2006 ha deciso di far eleggere il Presidente della Regione direttamente dai cittadini e non più dal Consiglio regionale. È notizia di questi giorni, tuttavia, che il Consiglio regionale abruzzese intenda discutere una proposta di revisione dello Statuto, volta ad introdurre nell’ordinamento regionale la c.d. “questione di fiducia”. Di cosa si tratta?
La questione di fiducia è un istituto tipico del diritto parlamentare, cui il Governo nazionale ricorre ogni qual volta ritenga che l’approvazione di un certo atto da parte del Parlamento sia assolutamente imprescindibile per il proseguimento della propria attività politica: qualora il Parlamento non dovesse approvare l’atto posto in votazione dal Governo, questo si dimetterà. Poiché il ricorso alla questione di fiducia comporta che l’atto debba essere votato senza possibilità di apportarvi modifiche, esso risulta essere, nei fatti, uno strumento decisivo a disposizione dell’Esecutivo, al fine di superare l’ostruzionismo manifestato dalle opposizioni in Parlamento.
Ebbene, la proposta di disciplinare nello Statuto regionale abruzzese la questione di fiducia desta più di una perplessità.
Per quanto concerne la legittimità di una scelta siffatta, è da dire che il significato profondo di questo istituto può essere colto solo a patto di riflettere intorno al tipo di rapporto che in ambito statale corre tra il Governo e il Parlamento. Sul piano nazionale, infatti, il Governo non può svolgere la propria attività senza che abbia prima ottenuto la fiducia di entrambe le Camere. Lo stabilisce la Carta costituzionale all’art. 94. Nel caso della Regione Abruzzo, invece, il Presidente e la Giunta non devono ottenere alcuna fiducia da parte del Consiglio, in quanto la legittimazione all’esercizio dell’attività politica dell’esecutivo regionale promana direttamente dal voto popolare.
L’art. 123 della Costituzione prevede che “ciascuna Regione ha un proprio Statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo”. Se si considera, poi, quel che stabilisce in altra sua parte la Costituzione, si scopre che in essa vengono elencati in modo puntuale i casi di cessazione dalla carica del Presidente: approvazione di una mozione di sfiducia, rimozione, impedimento permanente, morte e dimissioni volontarie del Presidente (art. 126).
Si osserverà: ma è la stessa Costituzione che, in modo del tutto singolare, considera tra le cause di cessazione della carica del Presidente l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Consiglio; seppur implicitamente, essa parrebbe, con ciò, ammettere che il rapporto tra il Presidente e il Consiglio possa, quindi, essere di tipo fiduciario. Nemmeno per sogno; e del resto la stessa Corte costituzionale ha escluso una lettura di questo tipo, quando nel 2006 ha bocciato lo Statuto della Regione Abruzzo, proprio nella parte in cui pretendeva di condizionare l’entrata in carica della Giunta al voto di fiducia espresso dal Consiglio. Allora si dirà: ma anche altre Regioni hanno disciplinato nel proprio Statuto la questione di fiducia. E quando lo hanno fatto, il Governo non ha impugnato, per questa parte, lo Statuto dinanzi alla Corte costituzionale. Certo. Ma questo non toglie che una previsione siffatta potrebbe essere comunque illegittima, posto che se si introducesse la questione di fiducia nello Statuto si andrebbe ad incidere esattamente sulla natura del rapporto che deve correre tra il Presidente e la Giunta, da un lato, e il Consiglio, dall’altro: in tal caso, l’effetto che si ricollegherebbe alla questione di fiducia sarebbe esattamente quello di verificare se tra i due organi della Regione sussista ancora … la fiducia! Il che – per la Regione che avesse optato per l’elezione diretta del Presidente – sarebbe evidentemente un controsenso.
Vero è che anche in assenza di una espressa disciplina della questione di fiducia da parte dello Statuto, al Presidente della Regione non sarebbe comunque impedito di rassegnare le proprie dimissioni qualora il Consiglio non dovesse approvare una legge nel senso da egli voluto. Ma è pur vero che in questa evenienza si ricadrebbe nell’ipotesi di “dimissioni volontarie” già considerata dall’art. 126 della Costituzione.
A queste perplessità, altre, tuttavia, se ne aggiungono. Sottrarre al Consiglio la funzione di rappresentanza della comunità regionale e concentrarla nelle mani del solo Presidente espone, infatti, la Regione al rischio paradossale di versare in una situazione di subalternità rispetto alle decisioni assunte dal Governo nazionale. Taluni commentatori hanno, in verità, sottolineato come, a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, il rafforzamento della posizione del Presidente della Regione abbia di fatto inciso sulle relazioni intrattenute con gli organi dello Stato centrale. Secondo questa opinione, il Presidente della Regione, forte dell’investitura popolare, si ergerebbe a principale difensore dei peculiari interessi che emergerebbero dalla comunità regionale; per questo – si è concluso – egli esprimerebbe un maggior grado di indipendenza rispetto alle posizioni assunte dal Governo nazionale. In tal senso andrebbero, ad esempio, lette le vicende che hanno portato i Governatori del Piemonte e del Veneto ad opporsi alla distribuzione sul proprio territorio di alcuni farmaci abortivi. Ora, può darsi che in questa opinione vi sia molto di vero; pur tuttavia ritengo che un epilogo di questo tipo si colleghi più ad una valutazione soggettiva, che ad una serie di circostanze obiettive. Per le ragioni più disparate, non si può, infatti, escludere che un Presidente e la sua maggioranza possano ritenere più conveniente assumere una posizione remissiva ed accettare di buon grado quanto chiesto o anche solo desiderato dal Governo nazionale. Le modalità sarebbero le più disparate: essi potrebbero decidere di non impugnare una legge dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, quando questa leda in modo manifesto una competenza della Regione; escludere di resistere in giudizio, quando sia il Governo ad impugnare una legge della Regione dinanzi alla Corte; ritenere di dover sottoporre all’approvazione del Consiglio una legge ideata e scritta per i cittadini della Regione direttamente dal Governo, com’è accaduto per l’Abruzzo con la legge sul petrolio e come forse accadrà con la legge sul servizio idrico integrato: in entrambi i casi, infatti, il Governo nazionale ha condizionato il ritiro del ricorso di legittimità costituzionale all’approvazione da parte del Consiglio di un testo di legge, elaborato direttamente a Roma.
Ora, si provi a pensare a quel che accadrebbe se si introducesse nello Statuto della Regione la questione di fiducia: il Consiglio regionale approverebbe una legge; il Governo la impugnerebbe, promettendo, tuttavia, di rinunciare al ricorso qualora la Regione approvasse una legge scritta direttamente a Palazzo Chigi. Quindi la Giunta presenterebbe al Consiglio regionale un nuovo disegno di legge, corrispondente in tutto e per tutto a quella voluta dal Governo. E su di esso porrebbe la questione di fiducia. A quel punto, il Consiglio regionale si troverebbe a dover approvare quel testo senza possibilità di introdurre emendamenti: prendere o lasciare. Nel caso in cui la proposta non fosse approvata, il Presidente e gli assessori sarebbero costretti a dimettersi e i consiglieri tornerebbero a casa.

ENZO DI SALVATORE

(28 giugno 2011)

Il caso Sayn-Wittgenstein: ordine pubblico e identità costituzionale dello Stato membro

(osservazione a Corte giust., sent. 22 dicembre 2010, causa C-208/09, Ilonka Sayn-Wittgenstein c. Landeshauptmann von Wien)


1. La pronuncia della Corte di giustizia che qui si annota è originata da una questione pregiudiziale posta dal Verwaltungsgerichtshof austriaco, con cui si chiedeva se l’art. 21 TFUE, relativo alla libera circolazione delle persone, fosse d’ostacolo al rifiuto, espresso da una normativa nazionale, di riconoscere un cognome attribuito in un altro Stato membro ad un figlio adottivo (adulto). Nel caso di specie, si trattava di comprendere se la signora Ilonka Sayn-Wittgenstein, cittadina austriaca residente in Germania, potesse conservare il cognome nella forma “Fürstin von Sayn-Wittgenstein”. A tal riguardo, nella causa principale con cui si era chiesto l’annullamento del decreto del Landeshauptmann di Vienna, che aveva rettificato il cognome della cittadina austriaca (eliminando dallo stesso le parole “Fürstin von”), la signora Sayn-Wittgenstein aveva osservato: che “il mancato riconoscimento degli effetti giuridici dell’adozione riguardo al nome” costituisse “un ostacolo alla libera circolazione delle persone”, essendo, in questo modo, costretta a portare cognomi differenti nei diversi Stati membri; che non potesse legittimamente invocarsi il limite dell’ordine pubblico, mancandone i presupposti (necessità ed urgenza di farvi ricorso e sufficiente collegamento con lo Stato membro interessato); che una modifica del cognome, nei termini stabiliti dal decreto dell’autorità austriaca, costituisse una violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare, come garantito dall’art. 8 della CEDU. Di contro, il Landeshauptmann di Vienna aveva sostenuto che non dovesse procedersi ad una disapplicazione della legge sull’abolizione della nobiltà del 1919, poiché, in ragione del rinvio effettuato dall’art. 149, comma 1, della Costituzione austriaca (Bundesverfassungsgesetz), essa aveva acquisito “valore costituzionale”: se si fosse proceduto ad una disapplicazione di detta legge, ne sarebbe derivata “una grave violazione dei valori fondamentali sui quali poggia l’ordinamento giuridico austriaco”.

2. Con il suo rinvio, il giudice austriaco chiedeva, dunque, alla Corte di giustizia se ragioni di ordine costituzionale potessero autorizzare uno Stato membro a non riconoscere in tutti i suoi elementi il nome ottenuto da uno dei suoi cittadini per effetto di una adozione in un altro Stato membro. Nella sua pronuncia, la Corte non nega che detto rifiuto costituisca effettivamente una restrizione delle libertà riconosciute dall’art. 21 TFUE ad ogni cittadino dell’Unione. Pur tuttavia, essa ritiene di dover verificare se, nel caso di specie, sussistano ragioni tali da giustificare una legittima restrizione alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE. A tal fine, e sulla base delle diverse osservazioni presentate, essa giunge a considerare: da un lato, la libertà del cittadino UE; dall’altro, il limite dell’ordine pubblico e quello dell’identità costituzionale dello Stato membro.
Ebbene, il problema che qui preme porre in luce concerne esattamente i termini di tale rapporto, giacché, a ben vedere, esso involge due questioni tra loro non perfettamente sovrapponibili, e cioè: il c.d. ordine pubblico materiale, espresso dal concreto interesse sotteso ad una previsione costituzionale (cui si ricollegano le misure adottate dalle autorità nazionali), e il c.d. ordine pubblico ideale, che riassumendosi nella formula della “identità costituzionale” dello Stato membro, esprimerebbe, almeno secondo la concezione fatta propria dal Governo austriaco, un nucleo di principi e/o di valori costituzionali non derogabili (su questa distinzione v. per tutti L. PALADIN, Ordine pubblico, in Nss.D.I., XII, Torino, 1965, 130 ss.; A. PACE, Il concetto di ordine pubblico nella Costituzione italiana, in Arch. giur., 1963, 111 ss.).
Ed infatti, mentre il giudice europeo ritiene che la nozione di ordine pubblico, quale deroga ad una libertà fondamentale, “deve essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle Istituzioni dell’Unione europea” (e il ricorso ad essa può giustificarsi “solo in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività”) (cfr. Corte giust., sent. 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, in Racc., 2004, I-9609, punto 30; ma sulla nozione di “ordine pubblico” v. già Corte giust., sent. 4 dicembre 1974, causa 41/74, Yvonne van Duyn, in Racc., 1974, 1337 ss., punto 18; Corte giust., sent. 28 ottobre 1975, causa 36/75, Rutili, in Racc., 1975, punti 26 ss.; in dottrina v. F. ANGELINI, Ordine pubblico nel diritto comunitario, in Dig. Disc. Pubbl. – Aggiornamento, Torino, 2005, 503 ss.; amplius ID., Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea, Padova, 2007), il Governo nazionale fa valere che “le disposizioni in questione nella causa principale mirano a salvaguardare l’identità costituzionale della Repubblica austriaca” ovvero: “una decisione a carattere fondamentale del legislatore costituente a favore di una formale parità di trattamento di tutti i cittadini dinanzi alla legge, volta a far sì che nessun cittadino austriaco possa acquisire prestigio particolare attraverso aggiunte al nome sotto forma di titoli nobiliari, onorificenze e dignità, la cui unica funzione sia quella di distinguere la persona che se ne fregia, e che non abbiano nessun legame con la sua professione o i suoi studi”. In quest’ottica, pertanto, una restrizione alla libertà riconosciuta dal Trattato si giustificherebbe “alla luce della storia e dei valori fondamentali della Repubblica austriaca”.
Questa prospettiva, invero, non è del tutto inedita, in quanto, com’è noto, è stata da tempo accolta da talune Corti costituzionali (come quella italiana o spagnola), che espressamente hanno discorso di valori ovvero di principi supremi o anche di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, per sottolineare come sul piano interno sussistano limiti non travalicabili dal diritto comunitario (oggi: dell’Unione). Più scopertamente, però, è stato il Bundesverfassungsgericht tedesco ad aver postulato – dapprima solo incidentalmente (sent. 1967) ed in seguito più manifestamente (sent. “Lissabon” 2009 e, in un senso in parte diverso, sent. “Mangold” 2010) – una sostanziale coincidenza tra il novero di detti valori o principi e la “Verfassungsidentität” (identità della Costituzione), sostenendo che detto concetto esprimerebbe un limite di carattere assoluto ovvero intangibile rispetto al processo di integrazione, al cui controllo sarebbe tenuto il Tribunale costituzionale federale (“Identitätskontrolle”). Questo epilogo, in tutta evidenza, finisce per rendere sostanzialmente equivalenti tra loro il concetto di “identità costituzionale” e il concetto di “ordine pubblico”, che, sul piano internazionale, si configura tradizionalmente come un limite di carattere funzionale e assoluto.

3. È evidente, però, che – al di là delle interpretazioni che possono essere rese circa il significato da attribuire alla prescrizione di cui all’art. 4.2 TUE, relativa al rispetto dell’identità nazionale e al rispetto delle funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico – il pensiero del giudice europeo si discosta dalla prospettiva affacciata dal Tribunale costituzionale federale tedesco (ed anche dall’opinione di parte della dottrina: cfr. A. BLECKMANN, Die Wahrung der „nationalen Identität“ im Unions-Vertrag, in JZ, 1997, 265 ss.): per il Bundesverfassungsgericht, infatti, l’identità costituzionale resta un limite di carattere esterno al processo di integrazione, tant’è che il suo rispetto viene rivendicato dal giudice costituzionale nazionale; per il giudice europeo, invece, essa – convertita come accade nel caso di specie, nell’esigenza di tutela, da parte della Repubblica austriaca, del suo ordine pubblico materiale – tende a configurarsi come un limite di carattere interno al processo di integrazione (per via della previsione espressa posta dall’art. 4.2 TUE (versione Lisbona) e già prima dall’art. 6.3 TUE (versione Amsterdam)). Non è un caso che, in un passaggio della sua pronuncia, la Corte sostenga che “nel contesto della storia costituzionale austriaca, la legge sull’abolizione della nobiltà può, in quanto elemento dell’identità nazionale, entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone riconosciuto dalle norme dell’Unione” (ma per un approccio non molto dissimile v. già M. HILF, Europäische Union und nationale Identität der Mitgliedstaaten, in Gedächtnisschrift für Eberhard Grabitz, a cura di A. Randelzhofer-R. Scholz-D. Wilke, München 1995, 157 ss.).
È evidente, pertanto, che le due posizioni restano inconciliabili. Ritenere, infatti, che il rispetto dell’identità costituzionale costituisca un limite di carattere esterno al processo di integrazione, significa anche qualificare detto limite come assoluto e non ammettere, dunque, alcun bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco: tra quanto, cioè, lo Stato membro ritiene di dover idealmente opporre al processo di integrazione e i concreti interessi che, tutelati in sede europea, reclamano soddisfazione dinanzi al giudice nazionale. Ritenere, invece, che l’identità possa “entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone” significa considerare detto limite come relativo e non consentire che lo Stato membro, in una prospettiva di alterità o di separazione rispetto al processo di integrazione, possa valutare unilateralmente se un dato principio o istituto del suo ordinamento giuridico si concreti in un elemento della sua identità costituzionale.

ENZO DI SALVATORE

(13 marzo 2011)