mercoledì 19 ottobre 2011

La riforma dell’apprendistato: l’illusione di un contratto a tempo indeterminato per tutti

Il contratto di apprendistato è stato oggetto della recentissima riforma recata dal d.lgs. n. 167/2011, che entrerà in vigore il 25 ottobre 2011. In questa sede, si vuole commentare, soprattutto, l’art. 1 di tale decreto, ai sensi del quale “l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”.
Quale miglior incipit ci si poteva aspettare nella attuale situazione del mercato del lavoro, affetta da una precarietà congenita, che impedisce ai lavoratori – soprattutto i più giovani – di avere sicurezze? Proprio ieri il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Sacconi, nella trasmissione televisiva Ballarò ha elogiato la riforma qui in discussione - e non poteva essere altrimenti, essendo lo stesso Ministro il promotore del decreto delegato –, sostenendo che, grazie alle innovazioni normative recate, il contratto di apprendistato diventerà il paradigma del contratto di lavoro con cui i giovani si affacceranno nel mondo delle professioni. Esso continua, infatti, ad essere un c.d. contratto a causa mista (che unisce una prestazione di lavoro ad un’attività volta alla formazione dell’apprendista), che fa evolvere il lavoratore nella propria professionalità. Inoltre, visti i benefici previdenzial-fiscali e di (iniziale e temporaneo) sotto-inquadramento retributivo del lavoratore (v. art. 2, lett. c), gli imprenditori saranno ben disposti a ricorrere a tale tipologia contrattuale nel momento in cui daranno luogo a nuove assunzioni. Uniti questi incentivi alla disposizione precedentemente richiamata, che configura il contratto di apprendistato come contratto di lavoro a tempo indeterminato, si accendono gli entusiasmi! Eppure, basta leggere solo qualche riga più in là per spegnere ogni aspettativa. Ai sensi dello stesso art. 1 (lett. m), infatti, è prevista la “possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione ai sensi di quanto disposto dall’articolo 2118 del codice civile. Se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato”. E – si chiederanno i più – che significa? Significa che è vero che il datore di lavoro, durante il periodo di formazione (che può durare per un periodo variabile, a seconda della tipologia di apprendistato), non può licenziare il lavoratore, ma, appena questo periodo finisce, l’imprenditore può porre nel nulla la disposizione di principio secondo cui il contratto di apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato, semplicemente esercitando il recesso nel termine prescritto! E, allora, speriamo tutti che i datori di lavoro diventino sbadati! Se, infatti, dimenticheranno di esercitare il recesso a tempo debito, il contratto di apprendistato si trasformerà in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Effettivamente, l’unico dato che viene aggiunto dalla presente riforma è questo effetto di “dimenticanza”, ma – tutti converranno – non è così che si migliorano le pessime condizioni dell’attuale mercato del lavoro. Si badi, peraltro, che la possibilità di recesso alla fine del periodo di formazione non è circondata di alcuna tutela in favore dell’apprendista: non deve ricorrere alcuna particolare condizione, infatti, al fine di poter esercitare tale facoltà da parte del datore di lavoro. Ma allora che senso ha affermare, in linea di principio, che il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato, se il datore di lavoro ha la facoltà di recesso ad nutum?
Il contratto di apprendistato, dunque, di fatto, non è (un unico) contratto a tempo indeterminato (come sembrerebbe far intendere l’art. 1 del decreto delegato), bensì diventa costituito da due contratti: il primo, di apprendistato in senso stretto, che dura finché è in atto la formazione (e nel corso del quale non vi è possibilità di licenziamento da parte del datore di lavoro, salvo giusta causa o giustificato motivo); un secondo contratto – per così dire “ordinario” – di lavoro subordinato a tempo indeterminato la cui efficacia è subordinata alla condizione che il datore di lavoro non eserciti il recesso per tempo.

PAOLO COLASANTE

martedì 18 ottobre 2011

Tornare a discutere di riforme istituzionali

Mentre l’economia arranca e gli indignados scendono in piazza, la classe politica nazionale e quella nostrana, in special modo, preferiscono intrattenere un dialogo fitto e autoreferenziale sulle alleanze e le strategie da mettere in campo per i prossimi appuntamenti elettorali. Non tutti, ovviamente. I più illuminati spendono persino qualche parola sagace sulle riforme strutturali necessarie al rilancio dell’economia, rifiutando l’idea che si debba tamponare la crisi procedendo a colpi di mannaia. A parere di alcuni, infatti, occorrerebbe soprattutto investire, anziché effettuare tagli orizzontali alla spesa pubblica. Salvo poi tornare a ragionare di tagli di ogni tipo sul versante istituzionale: ora in relazione alle province, ora alla pletora degli enti inutili; ora con riferimento alle indennità delle cariche pubbliche, ora al dimezzamento del numero dei parlamentari. Un insieme di tagli anch’essi orizzontali, in fondo; che paiono dettati più dall’antipolitica che avanza piuttosto che da un disegno complessivo realmente consapevole. Quasi che in campo economico debba aversi una diagnosi esatta e in campo istituzionale no. Eppure le due cose stanno assieme.
“Il dimezzamento del numero dei parlamentari” – ha affermato di recente Walter Veltroni – “è necessario per far funzionare meglio la democrazia”. Ciò comporta evidentemente anche una riduzione dei costi della politica. Per questo in Parlamento giacciono diverse proposte di legge, che vorrebbero andare in questa direzione. Il resto si vedrà: è tutto scritto nella brochure “L’Italia di domani”, che il PD ha preparato e diffuso in rete. Sessanta pagine circa, di cui appena tre dedicate al problema delle riforme istituzionali. Sul versante opposto, intanto, il Ministro Calderoli propone una grande riforma istituzionale, che vorrebbe interessare la riduzione del numero dei parlamentari, l’istituzione del Senato federale e la forma di governo. Il sen. Gasparri assicura che entro metà dicembre il disegno di legge relativo approderà in aula al Senato.
A mio sommesso parere, la questione economica è strettamente connessa con quella delle riforme istituzionali. Per questa ragione, credo si debba andare fino in fondo e non procedere intervenendo qua e là, come propone di fare il PD nella sua brochure. Questo non vuol dire che il disegno di legge presentato da Calderoli sia particolarmente soddisfacente. Tutt’altro. Sebbene esso si proponga di modificare in più punti la Costituzione, a me non pare che colga il nocciolo del problema. Ovvero: quello del federalismo. In tal senso, l’esperienza che si è avuta sinora in Italia non può dirsi certo edificante, visto che dopo la riforma costituzionale del 2001 la Repubblica è divenuta ancor più centralista di quanto non fosse prima. Basti pensare alla questione del riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni e a quella delle funzioni amministrative, attribuite in prima battuta ai Comuni. Questioni che hanno conosciuto un intervento massiccio da parte del Parlamento e del Governo, che hanno impegnato sovente la Corte costituzionale in una autentica riscrittura del Titolo V della Costituzione e che attualmente sollevano un problema non altrimenti eludibile: come esercitare quelle funzioni se non si hanno i soldi a disposizione? Ma evidentemente l’esperienza non sempre insegna. Provo, allora, ad avanzare alcune proposte. Primo: si riduca il numero dei deputati e si trasformi il Senato della Repubblica in una Camera delle Regioni, composta di delegati regionali e non di eletti. Ciò avrebbe immediati riflessi sulla questione dei costi della politica (in quanto i delegati sarebbero già pagati dalle Regioni) ed aprirebbe ad una più proficua collaborazione tra il livello statale e quello regionale già a partire dalla sede legislativa, riducendo, in questo modo, forse anche il contenzioso costituzionale. In questa prospettiva – di superamento del c.d. “bicameralismo perfetto” – la Camera delle Regioni (o il Senato federale, se così più piace) potrebbe avere un ruolo non molto dissimile da quello rivestito dal Bundesrat tedesco, e, cioè, di collaborazione all’esercizio della funzione legislativa dello Stato. Ciò potrebbe estrinsecarsi essenzialmente in due modi: in ordine a talune leggi, approvando o respingendo quanto deliberato dalla Camera dei deputati; in ordine alle altre, chiedendo (eventualmente) che la Camera dei deputati effettui una nuova deliberazione, che tenga conto degli emendamenti suggeriti dai delegati regionali. Nel primo caso, la legge non entrerebbe in vigore se non con l’assenso necessario della Camera delle Regioni; nel secondo caso, la legge entrerebbe in vigore solo se la Camera dei deputati approvi nuovamente la delibera legislativa a maggioranza assoluta. Secondo: si elimini la competenza legislativa concorrente. A che serve se poi lo Stato non si limita a porre una disciplina dei principi fondamentali della materia, ma si spinge fin nel dettaglio della stessa? Molte materie, come si è detto, potrebbero essere disciplinate in Parlamento con la collaborazione della Camera delle Regioni. Le altre potrebbero essere, invece, in parte, devolute alla competenza esclusiva delle Regioni e, in parte, attratte entro un nuovo tipo di competenza, che conduca lo Stato e la Regione ad una sorta di competizione. Chi sa esercitare meglio una competenza può legiferare: lo Stato dovrebbe recare una disciplina standard della materia; e la Regione potrebbe ad essa derogare qualora riuscisse a varare una normativa più efficace di quella statale. Ovvio che tutto questo avrebbe comunque un costo. Così come un costo avrebbe finanche l’esercizio di funzioni amministrative attribuite agli Enti locali. Con ciò si passerebbe al terzo punto: si porti a termine il “federalismo fiscale” e si sancisca, inoltre, in Costituzione il principio in base al quale la spesa deve essere collegata all’esercizio della funzione: oltre a quanto già previsto dall’attuale art. 119 Cost., e anche in virtù di quello che, con ogni probabilità, in futuro stabiliranno le disposizioni costituzionali sul pareggio di bilancio, occorrerebbe, infatti, chiarire che qualora lo Stato effettui il trasferimento delle funzioni o qualora attragga a sé l’esercizio di quelle spettanti alle Regioni e agli Enti locali debba altresì accollarsi la spesa necessaria all’esercizio delle stesse. Quarto: si proceda, infine, ad una razionalizzazione del sistema delle autonomie locali ed anche ad un riordino del sistema delle conferenze. Punti, questi, che lambiscono ovviamente solo in parte la complessa problematica delle riforme istituzionali. Ma almeno si avvii il dibattito e si sappia rinunciare, in un momento così drammatico per tutti, a discutere di strategie elettorali e di inezie simili.

ENZO DI SALVATORE

lunedì 10 ottobre 2011

La Corte europea liberalizza le trasmissioni sportive sul territorio dell'Unione

Con sentenza del 4 ottobre 2011, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sul problema della trasmissione delle partite di calcio della Premier League (equivalente della nostra serie A) da parte di gestori di pub e ristoranti inglesi.

La Football Association Premier League (FAPL) è la società che gestisce il massimo campionato di calcio inglese. Essa stabilisce il calendario delle partite e le squadre ammesse e gestisce la vendita dei diritti alla trasmissione delle partite alle piattaforme satellitari e digitali (nel caso di specie sky).
Suddetta vendita, in tutti i paesi dell’UE da parte di ogni lega nazionale calcistica, è stata effettuata sulla base degli accordi con emittenti nazionali (ad esempio, in Italia la vendita ha riguardato sky Italia e Mediaset).
Le aziende televisive che acquistano i diritti impongono alla Lega calcistica nazionale l’esclusiva sugli stessi, al fine di non subire eccessiva concorrenza ed aumentare gli abbonati, i quali potranno vedere le partite solo acquistando un pacchetto con l’emittente tv. Nel Regno Unito, altresì, è la stessa normativa nazionale a prevedere la vendita dei diritti ad emittenti nazionali.

Il problema si è posto nel momento in cui taluni gestori di pub e ristoranti inglesi, per abbattere i costi, hanno iniziato a trasmettere le partite della Premier League mediante decoder e schede di trasmissione acquistate in Grecia, con l’unico svantaggio del commento in lingua greca, ma con evidenti vantaggi in termini di costi, in quanto, come noto, in Italia e in buona parte dell’Unione europea, le emittenti chiedono, a chi intende usufruire di trasmissioni pay-tv in locali pubblici, un’aggiunta rispetto all’abbonamento base, in considerazione delle maggiori entrate potenziali per i gestori derivanti dal poter inserire nei servizi resi al cliente la trasmissione dei match di calcio inglese.

La Corte con la sua sentenza ha affermato che un sistema di licenze per la ritrasmissione degli incontri di calcio, che riconosce agli enti di radiodiffusione un’esclusiva territoriale per Stato membro e che vieta ai telespettatori di seguire tali trasmissioni con una scheda di decodificazione di altri Stati membri, è contrario al diritto dell’Unione.
Essa, infatti, ha sostenuto che una normativa nazionale che vieti l’importazione, la vendita o l’utilizzazione di schede decodificate straniere è contraria alla libera prestazione dei servizi e non può essere giustificata né con riguardo all’obiettivo della tutela dei diritti di proprietà intellettuale, né dall’obiettivo di incoraggiare l’affluenza del pubblico negli stadi.
Una sentenza che può dirsi rivoluzionaria, in quanto, secondo i principi espressi dalla Corte di Giustizia, si potrebbe configurare la vendita, da parte delle leghe nazionali, dei diritti televisivi su tutto il territorio dell’Unione, con conseguente possibilità di una trattativa, da parte delle leghe nazionali, autenticamente europea tra tutte le emittenti, nella quale l’utente potrà scegliere se vedere la partita nella propria lingua (a maggior costo) oppure in lingua straniera (ma a prezzi più accessibili).
Una valvola di sfogo di un sistema per troppi anni ingessato e chiuso nei recinti nazionali.


CARLO ALBERTO CIARALLI

sabato 1 ottobre 2011

Il riordino dell’Istituto zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise: una normativa a due piazze?

La proposta di legge di riordino dell’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Abruzzo e del Molise, presentata in Consiglio regionale da Venturoni (PDL), è stata aspramente criticata da alcuni esponenti dell’opposizione. Claudio Ruffini e Giuseppe Di Luca (PD) hanno osservato come essa sia “diversa” da quella approvata di recente dalla Regione Molise (legge n. 27/2011) e, dunque, del tutto “inapplicabile”. Per esempio in ordine al numero dei componenti del collegio dei revisori: tre secondo la legge molisana; cinque secondo quella abruzzese. O, ancora, in relazione alla durata in carica del Direttore generale: cinque anni al massimo per il Molise; cinque anni, con possibilità di rinnovo fino al settantesimo anno di età, per l’Abruzzo. Ma a leggere attentamente i due testi, di divergenze ve ne sarebbero comunque altre. Come quella che concerne la nomina dello stesso Direttore: da parte del Ministro della salute, d’intesa con i Presidenti delle due Regioni, secondo la legge approvata dal Molise; da parte del Ministro della salute, sentiti i Presidenti delle due Regioni, secondo il progetto di Venturoni. O come quella relativa al Consiglio di amministrazione, il cui Presidente dovrebbe essere nominato d’intesa con il  Presidente della Regione Abruzzo, secondo quel che dispone la legge del Molise, e, invece, eletto dal Consiglio di amministrazione, secondo quanto vorrebbe la Regione Abruzzo.

Ad onor del vero, le critiche mosse non colgono appieno nel segno. Se il problema viene sollevato nei termini posti dai consiglieri Ruffini e Di Luca deve concludersi che abbia torto la Regione Molise e ragione Venturoni. La legge molisana e quella proposta da Venturoni, infatti, hanno una struttura completamente differente: quella molisana si compone di 7 articoli; quella abruzzese ne conta 6 e, però, diversamente da quella del Molise, reca in allegato – come parte integrante della legge – l’accordo stretto tra le due Regioni sul funzionamento dell’Istituto. Le divergenze che vi sono non corrono tra la legge abruzzese (in sé) e quella approvata dal Molise, ma tra il contenuto dell’accordo, riportato in calce alla legge abruzzese, e la legge molisana. Quindi, a meno di non ritenere che Venturoni abbia unilateralmente modificato quanto concordato con il Molise, deve concludersi che sia la legge molisana e non quella abruzzese a violare l’accordo.

I dubbi che la proposta di Venturoni solleva concernono, invece, la struttura della legge che si vorrebbe licenziare, e cioè la decisione di integrare in essa l’accordo stretto con il Molise. A mio parere, ciò violerebbe la Costituzione per i seguenti motivi: 1) al suo art. 1 si legge: “L’accordo allegato alla presente legge può essere modificato solo con leggi regionali sulla base di accordi tra la Regione Abruzzo e la Regione Molise, previa intesa con il Ministero della salute”. Così statuendo, la proposta di Venturoni finirebbe per attribuire alla legge regionale una natura del tutto particolare, e cioè atipica, perché la doterebbe di una efficacia diversa da quella che le altre leggi regionali normalmente hanno. Questa ipotesi, infatti, non può dirsi coperta da quanto prevede la Costituzione all’art. 117, ove si dice che la legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il miglior esercizio delle proprie funzioni. La legge regionale considerata dall’art. 117 Cost. non ha, infatti, natura particolare, costituendo essa solo la forma che l’intesa con un’altra Regione deve rivestire; 2) la proposta di Venturoni viola il limite territoriale che la Regione è tenuta a rispettare. Essa non può pretendere di stabilire quel che il Molise deve fare, come ad esempio adottare i provvedimenti ad essa spettanti, approvare con atto di Giunta l’istituzione di nuove strutture territoriali, ecc. Previsioni analoghe, si dirà, ricorrono anche in altre leggi regionali, come ad esempio in quella della Lombardia (legge n. 26 del 2000). Ma questo non toglie che leggi di questo tipo siano illegittime; e, in senso contrario, non varrebbe neppure invocare la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 122/2011), con cui si è dichiarata solo in parte l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo sull’Istituto zooprofilattico (n. 13/2010), magari sostenendo che la Corte abbia taciuto su norme di analogo tenore: non era questo quel che il Governo lamentava nel suo ricorso.
A voler essere rigorosi, la disciplina legislativa dell’Istituto (fermo restando ovviamente l’accordo) non potrebbe che promanare da una sola delle due Regioni: quella dove lo stesso Istituto ha la sua sede legale. Del resto, mi pare sia questo ciò che la legge dello Stato (d.lgs. n. 270/1993) lascia implicitamente intendere, quando dice, ad esempio, che “il Consiglio di amministrazione è designato dalla Regione dove l’istituto ha la sede legale, di concerto con le altre regioni interessate”. Ma se proprio si vuol insistere con il proposito di arrivare ad avere una normativa “a due piazze”, si abbandoni almeno l’idea di integrare nel testo di legge l’accordo stretto con il Molise. Sarebbe sufficiente guardare a quanto si è fatto in Piemonte nel 2005: pochi articoli di legge, con cui si è approvato l’accordo e si sono definite le competenze del Consiglio regionale. Mentre tutto il resto continua a trovare sede nel patto siglato con la Liguria e la Valle d’Aosta.

ENZO DI SALVATORE