venerdì 25 novembre 2011

Ernst Jünger e la questione dello Stato mondiale

1. Ci sono libri, come quello di Ernst Jünger (Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione, trad. it. Parma, 1998), che sanno sorprendere, disorientare il lettore: il problema non è decidere da che parte stare, ma sapere dove andare. Più ragioni portano allo smarrimento: uno stile compatto e senza fenditure, che non dà modo al pensiero di incunearsi; un linguaggio rapsodico, che, con largo uso di figure retoriche, tende più ad affermare che ad argomentare. A suggerire più che ad enunciare. Cosicché, se talvolta si resta meravigliati per le scarne espressioni utilizzate, talaltra ci si turba per il non detto. Per un taciuto che frequentemente diviene ambiguità e che già solo per questo parrebbe assicurare al suo autore l’immortalità della propria idea. Eppure sarebbe ingeneroso fermarsi qui. Il più delle volte il non-pensiero apre, infatti, alla visione, ad una penetrante e fruttuosa immaginazione, che ci porta a dire quel che di Shakespeare già pensava Montale: e cioè che in Jünger “un albero è veramente sufficiente a creare una foresta”.
Nel suo libro, Ernst Jünger scrive che lo Stato, in quanto status, “corrisponde strettamente allo stare o al suo sussistere”. Questa affermazione non deve trarre in inganno. Jünger non è un giurista e con il suo saggio vuol porre in luce l’aspetto più propriamente fenomenologico dello Stato: il suo volto vivo, che, al di là di ogni lettura deterministica dello storia, ha da sempre tratto alimento dalla libertà. Nello Stato – assicura Jünger – si riassume tutta la potenza dell’uomo; in esso confluiscono le sue forze. A conferma di ciò starebbero le statue erette “nell’agorà, nel foro, nelle grandi piazze rinascimentali e barocche”; così come taluni simboli del dominio, quali la corona e lo scettro. E persino l’inno o la bandiera, che, sebbene con altri presupposti, nella dottrina integrazionista di Rudolf Smend già tendevano all’inclusione in funzione della conservazione.
Da tempo, tuttavia, le forze dell’uomo si sono indebolite e non fondano più la storia. L’uomo è in movimento ed anche lo Stato lo è: questo vive di grandi spazi e si fa smisurato. È chiaro che in un mondo “che si muove accelerando” non vi sono statue da erigere; ed anche i simboli non esprimono più staticità, ma dinamicità. “Sono le punte lanciate nel moto più veloce e potente” – dichiara Jünger. “Sono i veicoli spaziali e quella punta estrema raggiunta dal mondo che va costituendosi”.
Qui – è bene precisarlo – il movimento non è elemento di un’organizzazione politica a fondamento tripartito (C. Schmitt). Esso non può esserlo perché si sottrae al libero volere e al rapporto di causalità, che connette i fatti storici tra loro. Quel che conta – e che solo lascia intravvedere il movimento e la sua corsa verso lo Stato mondiale – è l’azione finale. Ciò che porta lo scrittore a dire che il presente non è da intendere quale conseguenza (di quel che è stato), ma “quale segno premonitore di qualcosa che sta per sopraggiungere”; e che, però, travolge tutto: i concetti storici così come il diritto. Per questo gli è agevole anche affermare che “la conoscenza storica non dispone più degli strumenti per darne conto”.

2. La tesi che a Jünger preme sostenere (e che, in realtà, corrisponde ad una sua non troppo remota anarchica speranza) è che nello Stato mondiale si realizzerà l’emancipazione dell’organismo dall’organizzazione.
L’uomo ha nutrito da sempre una certa diffidenza nei confronti dello Stato. Il singolo e la comunità (cui il singolo naturalmente appartiene) sono esposti alla potenza dello Stato e ne subiscono costantemente la minaccia. Jünger concepisce la società come organismo (naturale) e contrappone ad essa l’organizzazione. Al pari di quanto accade in altre specie viventi, anche nella specie umana se si fa più stringente l’organizzazione aumenta la sicurezza, ma diminuisce la libertà: “se tra gli insetti sociali l’ordinamento e la divisione del lavoro dà incremento all’economia in misura tale da rendere possibile l’accumulo di scorte di cibo, tale ricchezza è acquisita al prezzo di sorprendenti sacrifici”.
Il parallelo tracciato da Jünger si arresta, tuttavia, qui, in quanto “man mano che si sale a livelli più evoluti nel regno animale, la costruzione degli Stati sembra farsi più rara”.
Nella loro struttura elementare – afferma ancora l’esimio scrittore – l’organizzazione può dirsi connessa con la vita; non primariamente, bensì nei limiti in cui essa agisce spontaneamente sullo status biologico degli esseri viventi: “se questa tendenza si chiama volare o nuotare, compaiono ali e pinne, oppure queste vengono trasformate in modo geniale, nel senso che le ali diventano pinne, come negli alcidi o nei pinguini, o le pinne diventano ali, come nei pesci volanti”.
Ebbene, nella specie umana, il cui proprium è la libertà del volere, l’organizzazione appare un fatto artificiale, che giustifica la resistenza biologica. Spesso inutilmente. Una prospettiva più darwinistica che organicistica dello Stato, come si vede; che porta Jünger a chiedersi se il toro chieda davvero l’aratro e se il popolo voglia davvero lo Stato: “chi vuole esercitare un dominio deve certamente pensarla così, ma nell’universo si può osservare in maniera altrettanto evidente una tendenza a sottrarsi a tale dominio”. Eppure Jünger è convinto che la nascita dello Stato mondiale decreterà la morte dello Stato “storico”; e che in esso l’uomo ritroverà la sua purezza primordiale, la sua libertà. Una libertà che è assenza del padre; realizzazione di un’antica e illibata determinazione; cessazione delle ostilità, che rende vano il passaggio dell’uomo al bosco (Waldgang). In questo senso, lo Stato mondiale realizzerebbe una nuova qualità, più che un’estensione territoriale della sua organizzazione: “quando lo Stato era un’eccezione, quando era insulare, o unico nel senso dell’origine, gli eserciti combattenti erano superflui, stavano al di fuori dell’immaginazione. La stessa situazione deve presentarsi dove lo Stato diventa unico in senso finale. Allora l’organismo dell’uomo, nel senso di ciò che è autenticamente umano, potrà manifestarsi nella sua purezza, libero dalla costrizione dell’organizzazione”.

3. Nel suo celebre Principii di diritto costituzionale generale, Santi Romano definisce lo Stato una “istituzione”: un’unità “ferma e permanente”, che “assorbe gli elementi che ne fanno parte e che è superiore e preordinata così agli elementi stessi come alle loro relazioni, in modo che non perde la sua identità, almeno sempre e necessariamente, per singole mutazioni di tali elementi”.
Lo Stato, come si vede, è per il giurista un’organizzazione di tipo statico; dinamico è il suo ordinamento giuridico. Diversamente da Jünger, il giurista è tradizionalmente incline ad analizzare non l’aspetto fenomenologico dello Stato, ma i caratteri del suo “stare”, del suo “sussistere”. Un mutamento dei principi di struttura che caratterizzano lo Stato, e che ne connotano storicamente la sua forma, non sembra minare questo presupposto. Allo stesso modo, un mutamento degli elementi costitutivi dello Stato (l’ampliamento o la riduzione del territorio e del popolo dello Stato, così come la condivisione della propria potestà di imperio con organizzazioni internazionali o europee) non pare incidere sulla sua sovranità. Quanto, però, questa premessa sia perfettamente coerente con lo Stato mondiale di Jünger è difficile da dire, atteso che un’idea siffatta non contraddirebbe a valle soltanto il mantenimento del diritto internazionale, ma smentirebbe a monte la stessa possibilità di predicare l’esistenza dello Stato. Se si esce dalla prospettiva che anni orsono la dottrina pura del diritto ha ritenuto di dover abbracciare, questa idea, infatti, urta immediatamente contro l’insegnamento impartito dalla dottrina classica dello Stato ovvero contro taluni punti fermi da essa fissati negli studi dedicati al tema (G. Jellinek).
In via del tutto ipotetica, invero, nulla impedirebbe che i c.d. elementi costitutivi dello Stato si confacciano ad uno Stato che voglia dirsi autenticamente mondiale: non certo quello territoriale (Staatsgebiet), in quanto, in questo caso, esso finirebbe con il coincidere con l’intera superficie del pianeta, e nemmeno quelli di imperio (Staatsgewalt) e di popolo (Staatsvolk), posto che ben potrebbe la potestà di governo essere esercitata nei confronti dell’umanità intera, intesa quale soggetto unitario di diritti e di doveri. Una prospettiva siffatta trascurerebbe, invece, un dato fondamentale, e cioè che i tradizionali elementi costitutivi dello Stato non esprimano affatto un significato di natura solo formale, collegandosi essi ad un concetto storico-giuridico non facilmente obliterabile: quello di nazionalità. Ciò a prescindere, si intende, dalla forma di Stato storicamente affermatasi, giacché, sebbene la classificazione tipologica dello Stato costituisca una mera convenzione scientifica, resta incontrovertibile che il concetto di nazionalità – trasfiguratosi ora nella sovranità del Monarca, ora in quella del popolo – rappresenti un fattore ineliminabile per aversi uno Stato.

4. Secondo Jünger, alla comparsa dello Stato mondiale corrisponderà la scomparsa dello Stato “storico”, in modo tale che “la conoscenza storica non (disporrà) più degli strumenti per darne conto”. Questa affermazione risulta, invero, del tutto ambigua; ed intesa alla lettera si pone in evidente frattura con l’insegnamento kantiano, teso, com’è noto, a mantenere distinto il piano delle categorie da quello dei concetti empirici.
Per Kant, com’è noto, le categorie si configurano quali concetti puri dell’intelletto, che soli renderebbero possibili i giudizi di esperienza. Ogni categoria esprimerebbe una necessità assoluta del processo epistemologico, e cioè si legherebbe per definizione alla percezione che si ha del fenomeno, prescindendo dalla possibilità della sua dimostrazione empirica. Stando alle parole di Jünger, invece, l’impossibilità della dimostrazione empirica – determinata dal nuovo che sopraggiunge – priverebbe l’interprete della stessa possibilità di utilizzare gli strumenti conoscitivi. Questa impostazione è non solo ambigua, ma – a questo punto – anche poco condivisibile.
Nel campo proprio della scienza giuridica il problema è stato affrontato, tra gli altri, da R. Stammler e J. Binder, sebbene un contributo decisivo alla sua risoluzione sia stato fornito da H. Kelsen, il quale ha efficacemente dimostrato come l’interpretazione del sistema normativo non muova affatto dal rapporto di causalità, ma dal principio di imputazione.
Su queste basi, è possibile sostenere che l’analisi storico-giuridica dello Stato – di ogni Stato – non è da svolgere in modo retrospettivo, e cioè considerando le condizioni storiche che hanno reso possibile la sua concreta formazione, bensì – una volta che si ammetta una rottura della continuità dell’ordinamento giuridico – sulla scorta di quel che stabilirà il nuovo sistema normativo. E poco importa se non vi sarà alcuna razionalizzazione del diritto dello Stato, se esso, cioè, vivrà di inediti costumi e di sconosciuti poteri: il diritto non è mai forza bruta, né magia. E però – diversamente da quel che vorrebbe Jünger – neppure anarchia.
Ragione per cui, se si prescinde dalle considerazioni critiche svolte più sopra, deve qui riconoscersi che, una volta che si postuli un ritorno alla purezza primordiale dell’organismo e si neghi, con ciò, la possibilità stessa del diritto, lo Stato mondiale semplicemente non è, non esiste.

ENZO DI SALVATORE

venerdì 4 novembre 2011

Costituzione e guerra

1. La Costituzione italiana del 1947 decreta in modo irreversibile l’abbandono dell’ideologia totalitaria e guerrafondaia predicata dal fascismo e inaugura un’era nuova e rivoluzionaria rispetto al precedente assetto istituzionale. È l’avvento della liberal-democrazia, che si ricollega ai principi di matrice internazionale della libertà, della giustizia nelle relazioni tra gli Stati e del più profondo pacifismo.
In sede di lavori preparatori della Costituzione, il dibattito sulle materie di politica internazionale fu caratterizzato dall’intento (per lo più unanime) di privare lo Stato, una volta per tutte, di quella illimitata libertà di ricorrere alla forza armata. Fino ad allora ciò aveva costituito il tratto peculiare del potere istituzionale in genere: un vero e proprio jus ad bellum, conferito in capo agli organi di governo di ciascun Stato nazionale. Il condiviso sentimento di condanna di questa indiscriminata potestà, che aveva trascinato la Nazione nella più sanguinosa delle guerre, convinse l’Assemblea Costituente ad approvare l’art. 11 della Costituzione. In esso si è proclamato, anzitutto, il ripudio della guerra di aggressione. Detto principio costituisce uno dei capisaldi dell’ordinamento costituzionale italiano e traduce sul piano normativo interno allo Stato il valore supremo del mantenimento della pace e della giustizia tra le Nazioni. In questa prospettiva, l’Italia è tenuta a non muover guerra ad altri Stati. Un divieto che deriva sì dalle prescrizioni costituzionali appena ricordate, ma anche dal diritto internazionale. Tant’è che si è sottolineato come l’introduzione del principio in Costituzione fosse proprio dovuta all’intenzione dello Stato italiano di aderire all’ONU (il cui Statuto aveva autorevolmente sancito il perseguimento della pace e il divieto dell’uso della forza come principi fondamentali del diritto internazionale). Da un lato, dunque, la Costituzione italiana; dall’altra, il diritto internazionale: sul piano interno, lo Stato deve perseguire la pace e attivarsi per la sua conservazione, astenendosi dall’utilizzare la forza armata; sul piano internazionale, in quanto membro delle Nazioni Unite, esso ha l’obbligo di rispettare le disposizioni dello Statuto costitutivo e, in special modo, quanto posto all’art. 2, par. 4, che vieta, appunto, il ricorso alla forza armata. Tutto questo, com’è noto, non ha, però, impedito che negli ultimi trent’anni l’Italia restasse coinvolta in quelle che (forse con troppa disinvoltura) sono state definite “missioni di pace” o “interventi a fini di umanità”: missioni e interventi che, di fatto, presuppongono e determinano il ricorso alle armi.

2. Proprio al fine di accertare la legittimità della partecipazione italiana alle operazioni militari, ci si interroga sulla nozione di “guerra” accolta dall’ordinamento costituzionale e dallo Statuto delle Nazioni Unite. Innanzitutto, è difficile dare una definizione che esemplifichi, una volta per tutte, gli elementi costitutivi del fenomeno. Riprendo a tal riguardo le parole del von Clausevitz, per il quale la guerra è “un camaleonte che in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura”; vale a dire che riesce a mutare le sue modalità di manifestazione seguendo l’evoluzione del tempo. In questo senso, il diritto non può che prendere atto delle ragioni che spingono gli Stati all’aggressione per mezzo delle armi, a prescindere dalle forme utilizzate. Dal dibattito avutosi in Assemblea Costituente emerge con chiarezza la volontà di “bandire qualunque forma massiccia di violenza armata”, con il proposito di estendere il divieto della guerra a qualsivoglia ipotesi di utilizzo delle armi.
La consapevolezza del Costituente circa l’inopportunità di racchiudere il fenomeno in esame in una qualunque definizione schematica e astratta trova riscontro anche nel riferimento che l’art. 11 fa alla guerra intesa come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, laddove per “offesa” è da intendersi l’utilizzo della forza armata che leda l’indipendenza politica di un altro Stato o la sua “integrità territoriale” ovvero l’uso delle armi finalizzato a “ imporre con la forza ad un altro popolo, un regime o una struttura di governo che esso non desidera avere”. Ciò comporta che oggetto del divieto costituzionale sia non solo la guerra intesa come aggressione armata ai danni di uno Stato, bensì anche qualunque altra azione coercitiva mirata a soverchiare l’autodeterminazione, l’autonomia e l’indipendenza di altri Stati.
Per ciò che concerne la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il divieto si estende a qualunque ipotesi di contrasto tra Stati, essendo negata la facoltà di muover guerra ad altri per perseguire interessi di qualsiasi natura, siano essi economici, giuridici o meramente politici.
Peraltro, nella Carta Onu il termine “guerra” compare al primo punto del Preambolo, ove si enuncia l’intenzione di bandirne definitivamente l’uso. Qui e più avanti si fa riferimento all’uso della “forza” proprio al fine di ricomprendere non solo la guerra propriamente detta, ma anche qualunque ipotesi di violenza perpetrata a mezzo delle armi, dalla quale derivino gli stessi effetti.

3. La rinuncia alla guerra, in qualunque sua forma di manifestazione concreta, non può essere intesa come radicale rinuncia alle armi. Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano è quello del perseguimento e del mantenimento della Pace, da cui deriva l’impegno degli organi di governo di salvaguardare l’equilibrio e la stabilità dello Stato, sia sul piano interno sia su quello esterno. In questo secondo caso, detto dovere si traduce nella legittimità della guerra “difensiva”, quale eccezione al generale ripudio della guerra. È sufficiente leggere quanto stabilisce l’art. 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. In tal senso, lo Stato è tenuto a predisporre un apparato militare stabile sul proprio territorio, al fine di respingere tempestivamente un attacco bellico altrui; i cittadini, per parte loro, dovranno ricorrere alle armi in caso di aggressione armata allo Stato. Tuttavia, proprio la legittimità costituzionale della guerra per scopi difensivi ha ingenerato, nel corso degli ultimi trent’anni, ripetuti fraintendimenti sul punto. Si prenda, ad esempio, il caso della partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia, effettuata sulla base della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle N.U. n. 1973/2011: qui sarebbe arduo sostenere che essa trovi copertura attraverso l’art. 52 della Costituzione. Come difficile sarebbe sostenere che siffatta partecipazione si configuri in termini di “legittima difesa”, ai sensi dell’art. 51 della Carta Onu, ove si parla espressamente di “attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”. Da questo punto di vista, non può dirsi che l’espressione “legittima difesa” – che autorizza gli Stati ad intervenire con le armi – ricomprenda persino l’ipotesi della “difesa preventiva”. Una simile conclusione – che ha portato taluni a ritenere che si possa ricorrere all’uso delle armi non già per muover guerra, bensì per “portare la pace” laddove questa sia anche solo in pericolo – risulta incompatibile con il principio pacifista e con il divieto sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta Onu.

4. Gli argomenti utilizzati per legittimare l’intervento militare in Libia si fondano proprio sulla pretesa compatibilità della risoluzione n. 1973/2011 con la Costituzione italiana e specificamente con il suo art. 11, in virtù del quale l’Italia può limitare la propria sovranità in favore di quelle organizzazioni internazionali che assicurino “la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Nella seduta della Camera dei deputati del 24 marzo 2011, il Ministro della Difesa on. La Russa ha sostenuto che l’accoglimento della citata risoluzione costituirebbe un atto dovuto in ossequio a quanto sancito dalla Costituzione, che impone il rispetto degli impegni assunti in ambito internazionale. In tal senso, i provvedimenti adottati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avrebbero carattere derogatorio rispetto al principio costituzionale di ripudio della guerra.
Una simile lettura dell’art. 11 Cost. non può essere condivisa. Il principio del ripudio della guerra è un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, che non può essere derogato in nessun caso, neppure sulla base degli impegni assunti dall’Italia in ambito internazionale. Le limitazioni di sovranità, cui si riferisce l’art. 11 Cost., presuppongono, infatti, che si mantenga intatto il principio del ripudio della guerra: la partecipazione dell’Italia ad organizzazioni internazionali appare legittima solo a condizione che si rispetti detto principio, in ossequio allo spirito pacifista che anima l’intera Costituzione. Del resto, il rapporto tra il diritto internazionale e il diritto dello Stato non può essere inteso come un rapporto di assoluta e incondizionata prevalenza del primo sul secondo. Detta prevalenza – come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza – non può interessare il novero dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. Principi e diritti assolutamente intangibili, che si configurano quali “controlimiti” alla prevalenza del diritto internazionale e, dunque, alle stesse limitazioni di sovranità. Per questa ragione si sarebbe dovuto concludere che la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia fosse, in realtà, illegittima.

RACHELE COCCIOLITO