mercoledì 12 dicembre 2012

La potestà regolamentare in Abruzzo secondo il Collegio regionale per le garanzie statutarie

L’art. 121 della Costituzione italiana aveva attribuito in capo al Consiglio regionale l’esercizio esclusivo della potestà legislativa e della potestà regolamentare. Tuttavia, in assenza di una disciplina che consentisse una approvazione dei regolamenti più snella e agevole rispetto a quella prevista per l’adozione delle leggi, i Consigli regionali finirono presto per ritenere non “conveniente” il ricorso alla potestà regolamentare. Tanto fu plateale il fenomeno che alcuni lo definirono come l’età dei “regolamenti dimenticati”. Così, detto potere transitò di fatto nelle mani delle Giunte regionali, le quali procedettero sovente all'adozione di atti formalmente amministrativi, ma dal contenuto sostanzialmente regolamentare.
In questo modo si aggirò il divieto posto in Costituzione.
La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha modificato l’art. 121 della Costituzione, sopprimendo formalmente dalle attribuzioni del Consiglio regionale l’esercizio della potestà regolamentare. Ciò ha dato la stura ad una situazione di grave incertezza, posto che taluni hanno sostenuto che in ragione di questo si fosse determinato un automatico passaggio della potestà regolamentare in capo alla Giunta regionale.
Con la sentenza n. 131 del 2003, la Corte costituzionale ha però sciolto il problema, avendo sostenuto che la modifica apportata all’art. 121 Cost. non comportasse in nessun modo un automatico passaggio della potestà regolamentare dal Consiglio alla Giunta. Secondo il giudice costituzionale, ogni Regione avrebbe potuto liberamente disciplinare attraverso il suo Statuto l’attribuzione di detta competenza. Ma mentre ovunque si è finito per attribuire la potestà regolamentare in capo alla Giunta, in Abruzzo si è deciso di seguire una strada diversa: l’art. 13, comma 1, dello Statuto abruzzese del 2006 ha, infatti, conservato in capo al Consiglio l’esercizio della potestà regolamentare; in questo modo, anche il problema della natura giuridica delle deliberazioni adottate dalla Giunta (atti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente regolamentari) è tornato a riproporsi. Questa scelta non è stata evidentemente particolarmente lungimirante. La dottrina maggioritaria ha infatti sottolineato come sia necessario mantenere distinte le due funzioni, lasciando al Consiglio solo quella legislativa e affidando quella regolamentare alla Giunta, in ragione dell’asserita appartenenza intrinseca dello strumento normativo secondario all’esecutivo regionale.

Lo scorso ottobre, 12 consiglieri regionali hanno chiesto al Collegio regionale per le garanzie statutarie di esprimersi circa la conformità di una deliberazione della Giunta regionale allo Statuto abruzzese (la deliberazione della Giunta recava “Indirizzi generali di gestione delle popolazioni di cinghiale e principi generali per la gestione delle popolazioni di cervo e caprioli”). Attraverso il loro ricorso, i richiedenti hanno sostenuto che detta deliberazione contrastasse con l’art. 13 dello Statuto regionale abruzzese, nel quale è previsto che “Il Consiglio regionale è l’organo della rappresentanza democratica della Regione; esercita la funzione legislativa e regolamentare, di indirizzo e programmazione; svolge attività ispettiva e di controllo; adempie ai compiti previsti dalla Costituzione italiana e dallo Statuto”. Anzi, a parere dei consiglieri, l’atto della Giunta si sarebbe posto in contrasto con lo Statuto, non solo in quanto “atto regolamentare generale ma, addirittura” perché avrebbe preteso di apportare “modifiche di carattere legislativo rispetto alla legge regionale 10/2004, in ciò invadendo chiaramente la competenza riservata al Consiglio regionale”.

Con parere n. 4, adottato il 19 ottobre scorso, il Collegio per le garanzie statutarie ha riconosciuto che la delibera della Giunta possiede evidente carattere regolamentare.
Nella sua decisione, il collegio per le garanzie statutarie si richiama ad un suo precedente parere (n. 2/2012), nonché ad una sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 9/2012).
Nel parere n. 2/2012 il Collegio ha avuto, infatti, modo di sottolineare che “Lo Statuto della Regione Abruzzo, differenziandosi da tutte le altre Regioni, ha riservato anche la funzione regolamentare al solo Consiglio, conferendo alla Giunta unicamente un potere di iniziativa in materia”. In detta occasione, esso ha ricordato come, secondo l’insegnamento della dottrina più autorevole, il regolamento si configuri quale atto normativo, idoneo, cioè, ad innovare all’ordinamento giuridico, attraverso disposizioni generali ed astratte; il che lo distinguerebbe da altri atti, che, sebbene generali ed astratti, risultino, però, privi del carattere della “novità” (es. bandi gara, concorsi, ecc.).
In questo modo, si sono respinte soluzioni ulteriori, come quelle volte a sottolineare la valenza politica del regolamento e cioè l’autonoma individuazione del fine da perseguire, che, di tutta evidenza, non è un carattere tipico dell’atto amministrativo generale. Allo stesso tempo, neppure risolutivo sarebbe il criterio dell’autoqualificazione dell’atto, ossia il fatto che esso risulti denominato “regolamento” (e, va aggiunto, la circostanza che esso sia emanato dal Presidente della Regione); se così fosse, infatti, ne seguirebbe l’attribuzione del carattere normativo a qualunque tipo di atto in modo arbitrario; e ciò in violazione dei caratteri tipici che detti atti devono possedere, nonché delle regole sulla produzione delle fonti del diritto.
Secondo il Collegio abruzzese, risolutiva sarebbe una decisione della adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 9/2012), con la quale, dopo essersi registrata una accentuazione del fenomeno della “fuga dal regolamento” (ossia l’utilizzo da parte degli esecutivi dello Stato e delle Regioni di atti formalmente amministrativi, ma a contenuto sostanzialmente regolamentare), si è escluso che la disciplina di una materia possa prescindere da quanto formalmente prescritto dalla legge n. 400 del 1988, che all’art. 17 reca una disciplina dei tipi di regolamento e del procedimento da seguire per l’adozione degli stessi.
Il Consiglio di Stato, dopo aver sottolineato che i caratteri della generalità e dell’astrattezza, che contraddistinguono l’atto normativo, “non possono e non devono essere intesi nel senso della applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell’applicazione e come capacità di regolare una serie indefinita di casi”, ha precisato che si possa discorrere di atto normativo ove i destinatari siano indeterminabili sia a priori che a posteriori (quale conseguenza della generalità e dell’astrattezza dell’atto); e che, invece, si debba parlare di atto amministrativo generale laddove i destinatari dello stesso siano indeterminabili a priori, ma determinabili a posteriori, esaurendosi l’atto, in ragione della natura che gli è propria, in una vicenda determinata.
Risulta pacifico affermare, pertanto, che l’atto amministrativo generale, a differenza del regolamento, abbia come fine la regolazione di un caso specifico e che sia sprovvisto della attitudine ad innovare all’ordinamento giuridico.
Su queste basi, il Collegio regionale abruzzese per le garanzie statutarie ha concluso che la delibera della Giunta regionale abruzzese n. 605/2012 possieda tutti i requisiti ed i caratteri del regolamento, dal momento che si propone di disciplinare in modo accurato e specifico il prelievo venatorio degli ungulati, l’individuazione delle figure tecniche abilitate alla gestione degli ungulati, il contenuto del piano di gestione che le province sono tenute ad adottare, l’individuazione delle zone di caccia, le norme di sicurezza per la caccia collettiva e l’assegnazione di potere sanzionatorio alle province.


CARLO ALBERTO CIARALLI

mercoledì 5 settembre 2012

La Provincia: una scatola ormai vuota?

All’incontro sul riordino delle Province tenutosi ieri pomeriggio a Pineto c’era una grande assente: la politica. Non parlo della politica con la “P” maiuscola. So bene che in questo momento i big della Politica sono alacremente impegnati a discutere di strategie elettorali. No. Mi riferisco alla politica con la “p” minuscola. Quella a cui appartengono coloro che, direttamente o indirettamente, si troveranno presto coinvolti nel processo decisionale, che porterà alla riscrittura della geografia istituzionale dell’Abruzzo. C’è da chiedersi come mai. Forse perché sanno che non di autentica decisione si tratti, visto che alla fine il Governo nazionale deciderà in solitudine. O forse perché, più semplicemente, ogni dubbio è in loro dissipato, al punto tale da ritenere che qualsivoglia confronto con il prossimo sia perfettamente superfluo.
Escluderei entrambe le ipotesi. Perché se una sola delle due fosse vera non assisteremmo al balletto che quotidianamente impazza sulla stampa. Giacché: quali buone ragioni sorreggerebbero le diverse proposte finora avanzate? Non certo quelle del campanile, si dice. Ben altre. Per esempio, il fatto che se sparisse questa o quella Provincia vi sarebbero gravi disservizi per i cittadini. O magari il fatto che possa essere maggiormente conveniente, per questo o quel Comune, annettersi o restare in questa o in quella Provincia.
Capisco chi si dichiari contrario ad una delle proposte ventilate per motivi di appartenenza identitaria: per quanto discutibile, si tratterebbe pur sempre di una posizione, che affonda le sue ragioni direttamente nel cuore. Capisco molto meno, invece, chi crede che da una sola delle proposte avanzate possa derivare un qualche “vantaggio” o “utilità”, specie in termini economici. Perché se così fosse, vorrebbe dire che il disegno sul riordino delle Province non gli è del tutto chiaro.
A parte, infatti, quanto già stabilisce il TUEL (l’istituzione di una nuova provincia non necessariamente comporta l’istituzione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici), la circostanza che venga mantenuta o soppressa una data Provincia costituisce un fatto pressoché irrilevante dal punto di vista dei benefici che si avrebbero o si perderebbero, dal momento che la legge n. 214 del 2011 impone che entro il 31 dicembre 2012 tutte le funzioni attualmente spettanti alle Province siano trasferite ai Comuni. Ed è quello che in effetti fa ora l’art. 17 della legge n. 135/2012, il quale, da un lato, devolve ai Comuni le funzioni finora spettanti alle Province nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato e, dall’altro, riserva alle stesse solo tre “gruppi” di funzioni “fondamentali”, relativi ai settori dell’ambiente, della viabilità e dei trasporti, della scuola. Tre “gruppi” soli, che, a me pare, presentano un contenuto più scarno rispetto a quello previsto dal TUEL. Basti pensare alla scuola: il TUEL stabiliva che alle Province spettassero “i compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l’edilizia scolastica”; la legge n. 135 del 2012 stabilisce, invece, che ad esse spettino “la programmazione provinciale della rete scolastica” e “la gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole di secondo grado”.    
Per il resto, le Province saranno chiamate unicamente a coordinare e indirizzare le “attività” dei Comuni, nei limiti fissati dalla legge dello Stato e da quella della Regione (secondo le rispettive competenze) (v. anche l’art. 14 della legge n. 122 del 2010). Tutte le altre funzioni – fino ad oggi conferite alle Province – sono automaticamente devolute in capo ai Comuni.
Insomma un po’ poco. Per questo ritengo che la discussione intorno al riordino delle Province – almeno nei termini posti – stia diventando oziosa. Perché le proposte avanzate hanno tutte ad oggetto il riordino di un Ente che è ormai una scatola vuota. Di questo dovrebbe semmai dolersi la politica con la “p” minuscola. E cioè del fatto che la politica con la “P” maiuscola – attraverso due interventi legislativi – abbia finito per riscrivere le caratteristiche di un ente territoriale, modificandone, nella sostanza, la natura.
Una riscrittura che, a mio parere, viola la Carta costituzionale: non solo in relazione al procedimento sancito dalla stessa per il riordino (art. 133 Cost.), ma soprattutto in relazione alla garanzia dell’autonomia locale (art. 5 Cost.), che si estrinseca attraverso la previsione di specifici “tipi” di funzioni amministrative in favore della Provincia.
L’art. 117 della Costituzione stabilisce, infatti, che la legge dello Stato determini le funzioni “fondamentali” delle Province. Ed è quello che fa, appunto, ora la legge n. 135 del 2012, che, nell’individuare quelle tre funzioni sopra richiamate (ambiente, trasporto e scuola), cita espressamente l’art. 117 Cost., comma 2, lett. p), Cost. Ma il fatto è che la Costituzione non contempla solo la categoria delle funzioni “fondamentali”, bensì, accanto a queste, anche quelle “proprie” e quelle “conferite” (art. 118 Cost.). Per questo la Costituzione è calpestata. Aver stabilito che alle Province spettino esclusivamente le funzioni di indirizzo e coordinamento, nonché le tre funzioni “fondamentali” di cui si è detto, equivarrebbe a negare che le Province siano titolari anche di funzioni “proprie” e di funzioni “conferite” (si veda l’art. 23, commi 14 e 18, della legge n. 214 del 2011).
Vero è che qualche giurista ritiene che le funzioni “fondamentali” siano coincidenti con quelle “proprie”, ma questa opinione non mi ha mai convinto del tutto. Anche se così fosse, il risultato comunque non cambierebbe, in quanto la legge del Parlamento impedirebbe che – da questo momento in poi – le Province possano essere titolari anche di funzioni “conferite” con legge della Regione (a meno che non si interpreti questo divieto come circoscritto solo alle funzioni finora conferite alle Province, ammettendosi che in futuro la legge della Regione possa conferire alle stesse nuove funzioni).
Finora la politica ha preferito discorrere di accorpamenti e di fusioni. Di denominazioni e di Città metropolitane. E i cittadini si sono divertiti, sono rimasti indifferenti o si sono indignati.
Ma credo sia giunto il momento di iniziare a prendere coscienza del fatto che una sola alternativa resti sul tappeto: chinare per sempre la testa o denunciare l’illegittimità della legge dello Stato.

ENZO DI SALVATORE  

venerdì 24 agosto 2012

Il riordino delle Province abruzzesi e la lenta agonia di Teramo

La proposta di riordino delle Province abruzzesi, avanzata dal Sindaco Brucchi nel corso dell’Assemblea tenutasi ieri presso la Sala polifunzionale della Provincia di Teramo, è stata largamente condivisa dai politici locali intervenuti all’incontro. Almeno questo è quanto riferisce la stampa quotidiana oggi. Di cosa si tratta? La ricetta sembra essere semplice: conservare intatte le Province di L’Aquila, Teramo e Chieti e trasformare Pescara in Città metropolitana. In questo modo, Pescara potrebbe tranquillamente cedere qualche suo Comune alla Provincia di Teramo (come ad esempio Penne) e Teramo acquisirebbe i requisiti minimi imposti dalla delibera del Governo del 20 luglio scorso: a) dimensione territoriale non inferiore a duemilacinquecento km quadrati; b) popolazione residente non inferiore a trecentocinquantamila. Una soluzione che, attraverso un taglia e cuci territoriale, finirebbe per accontentare tutti, giacché mentre quei requisiti non sarebbero necessari affinché Pescara possa costituirsi in Città metropolitana, per Teramo essi sarebbero fonte di “salvezza”. I numeri, infatti, parlano chiaro. La dimensione territoriale e la popolazione residente nelle quattro Province abruzzesi sono le seguenti: Pescara possiede 1.225 kmq e 323.184 abitanti; L’Aquila 5.034 kmq e 309.820 abitanti; Chieti 2.588 kmq e 397.123 abitanti; Teramo 1.948 kmq e 312.239 abitanti.

A mio parere, la proposta avanzata dal Sindaco Brucchi non può essere realizzata. Per due motivi: 1) Pescara non può costituirsi in Città metropolitana, in quanto le Città metropolitane sono istituite dal Parlamento e sono solo quelle elencate all’art. 18 della legge sulla “spending review”, ossia: Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria; 2) l’art. 17 della legge sulla “spending review” precisa che “il riordino deve essere effettuato nel rispetto dei requisiti minimi (…) determinati sulla base dei dati di dimensione territoriale e di popolazione, come esistenti alla data di adozione della deliberazione di cui al medesimo comma 2”. E cioè: al 20 luglio 2012, giorno in cui il Consiglio dei ministri ha, appunto, adottato la delibera con cui sono stati fissati i requisiti minimi. Questo vuol dire che, ai fini del riordino delle Province, il taglia e cuci territoriale è vietato e che l’accorpamento delle Province non può che avvenire in “blocco”. Circostanza, questa, del tutto trascurata da chi ieri ha preso parte all’incontro.

Se così è, resterebbe sul tappeto un’unica alternativa: 1) procedere al riordino delle Province abruzzesi, seguendo i criteri fissati dallo Stato; 2) agire in sede giurisdizionale.
1) Alla luce dei criteri fissati dalla legge dello Stato, il riordino delle Province abruzzesi comporterebbe in ogni caso la soppressione della Provincia di Teramo. Per Pescara, invece, il discorso è leggermente diverso, in quanto, qualora fosse accorpata a Chieti, diverrebbe comunque Capoluogo di Provincia, giacché la legge e la delibera del Governo stabiliscono a chiare lettere che “in esito al riordino (…) assume il ruolo di comune capoluogo delle singole province il comune già capoluogo delle province oggetto di riordino con maggior popolazione residente”.
2) Per la Provincia di Teramo, dunque, non c’è “salvezza”. A meno che – si intende – non decida di agire in sede giurisdizionale, impugnando la delibera del Consiglio dei ministri davanti al Tar (affinché poi questo sollevi la questione di legittimità della legge sulla “spending review” dinanzi alla Corte costituzionale) oppure non chieda al Consiglio delle Autonomie locali (Cal) di proporre alla Regione Abruzzo l’impugnazione in via principale dell’art. 17 della stessa legge sulla “spending review”. Soluzione, quest’ultima, non impossibile da praticare, posto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 298 del 2009, ha affermato che “le regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale”.

ENZO DI SALVATORE

mercoledì 8 agosto 2012

Il riordino delle Province secondo la “spending review”

Il decreto-legge del Governo sulla “spending review” – convertito ora in legge dal Parlamento – disciplina, tra le altre cose, il riordino delle Province italiane. L’art. 17 del decreto, nella versione modificata dalle Camere, stabilisce, infatti, che tutte le province delle Regioni a Statuto ordinario esistenti alla data di entrata in vigore del decreto siano oggetto di riordino sulla base di una procedura indicata dallo stesso articolo: il Consiglio dei ministri, con apposita deliberazione, determina i criteri per il riordino delle Province; entro settanta giorni dalla pubblicazione della deliberazione del Consiglio dei ministri (che risale al 20 luglio scorso), il Consiglio delle autonomie locali approva “una ipotesi di riordino” e “la invia alla regione”. Entro i venti giorni successivi, la Regione trasmette al Governo “una proposta di riordino” (e ciò anche qualora il Consiglio consultivo non abbia formulato la sua “ipotesi”). Entro sessanta giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione del decreto, “le Province sono riordinate” con legge, sulla base delle proposte regionali. Se la Regione non avrà formulato alcuna proposta, sarà la legge del Parlamento a decidere tutto, sulla base di un parere della Conferenza unificata.
Ricapitolando: gli Enti locali “ipotizzano”; le Regioni “propongono”; lo Stato “(ri)ordina”.
Ora, a mio parere, questa disciplina è del tutto discutibile; non già dal punto di vista dell’obiettivo che si propone di conseguire, ma dal punto di vista della sua legittimità costituzionale: il fine non giustifica il mezzo. Almeno non nel diritto.
L’art. 133 della Costituzione stabilisce che “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”. Su “iniziative” dei Comuni, si badi, non su loro “ipotesi”. Questo vuol dire che il procedimento di riordino delle Province non può essere calato dall’alto, ma deve muovere necessariamente dal basso: la Regione è “sentita” e la legge dello Stato è chiamata ad accogliere nel suo seno la modifica territoriale desiderata. Il Parlamento è qui autorizzato ad adottare solo una legge meramente “formale”. Se così non fosse, si finirebbe per ammettere che anche in altre ipotesi la legge dello Stato (ordinaria o costituzionale) possa essere “di sostanza”: come, ad esempio, nel caso della creazione di nuove Regioni o di fusione di Regioni esistenti (art. 132 Cos.) o nel caso di distacco di Province e di Comuni da una Regione ad un’altra. Per questa via si potrebbe essere tentati di sostenere persino che la legge dello Stato possa definire i contenuti dell’autonomia delle Regioni a Statuto speciale, visto che l’art. 116 stabilisce che “il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”.
È evidente, allora, che non è questo il “senso” della previsione costituzionale dell’art. 133: la ratio dello specifico procedimento ivi disciplinato si collega alla garanzia dell’autonomia locale, la quale non può essere vanificata da un intervento dello Stato centrale. E di questo hanno perfetta consapevolezza anche il Governo nazionale e i parlamentari che hanno convertito in legge il decreto sulla “spending review”, giacché essi tentano di aggirare l’“ostacolo” dell’art. 133 Cost. contemplando, in luogo del procedimento sancito dalla Costituzione, una (pseudo) partecipazione dei Comuni, per il tramite del Consiglio delle autonomie locali. Partecipazione, questa, che non è peraltro neppure garantita, visto che in assenza di qualsiasi “ipotesi” o “proposta” lo Stato farà comunque da solo; e, cioè, si sostituirà irrimediabilmente agli Enti locali e alla Regione nella decisione finale da assumere.

ENZO DI SALVATORE

martedì 31 luglio 2012

La scongiurata elusione dell’esito referendario sull’affidamento diretto dei servizi pubblici locali

1. La sentenza n. 199/2012, adottata dalla Corte costituzionale il 20 luglio scorso, presenta molteplici aspetti di interesse e verrà probabilmente ricordata per aver evitato che il legislatore eludesse il risultato del referendum tenutosi il 12 e 13 giugno 2011. Tuttavia, ciò che interessa sottolineare in queste brevi note non è il risultato ottenutosi con questa decisione, bensì la via che si è seguita per giungervi, che – occorre sottolinearlo sin da subito – è stata quella del giudizio in via principale, nell’ambito del quale le Regioni sarebbero limitate quanto ai parametri di costituzionalità invocabili. Per poter andare oltre, occorre preliminarmente riepilogare in breve i fatti che hanno condotto alla sentenza in parola.
Nelle date su indicate, il corpo elettorale si pronunciava nel senso dell’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il quale limitava fortemente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali. A soli 23 giorni dall’esito della consultazione referendaria, veniva emanato il d.l. n. 138/2011 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge 14 dicembre 2011, n. 148), che all’art. 4 recava l’ “adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”. Nonostante la rubrica, la ratio ispiratrice della normativa era assolutamente analoga a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008. L’elusione dell’esito referendario ha, dunque, indotto diverse Regioni a proporre impugnazione avverso la nuova regolazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali; impugnazione, che la Corte ha accolto con la sentenza in commento, in quanto ha condiviso le censure regionali secondo cui la norma impugnata avrebbe nella sostanza riprodotto la norma oggetto dell’abrogazione referendaria. Anzi, la Corte ha ritenuto che la nuova normativa “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi” ed, inoltre, “riproduce, ora nei principi, ora testualmente, talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008”.

2. Si è detto in apertura che ciò che interessa commentare in questa sede non è tanto l’esito cui la Corte è arrivata – che, peraltro, sia detto per inciso, è apprezzabile – quanto la via processuale con cui vi è giunta. La questione, infatti, è arrivata all’attenzione della Corte costituzionale mediante alcuni ricorsi regionali, che hanno dato avvio ad un giudizio in via principale, ed è stata risolta sulla base dell’art. 75 Cost. (Considerato in diritto, 5.2.3.: “Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 201, (…), per violazione dell’art. 75 Cost.”). Tuttavia, è ben noto che, secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza costituzionale, le Regioni possano agire in via principale solo per dedurre la lesione delle proprie competenze costituzionalmente garantite e non, invece, invocando come parametro norme costituzionali estranee al Titolo V della Costituzione, a meno che la violazione di quest’ultime non ridondi anche in una violazione del riparto delle competenze. Nonostante balzi immediatamente all’evidenza che l’art. 75 della Costituzione, che disciplina il referendum abrogativo, non attiene al riparto delle competenze, la Corte ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale comunque ammissibile.
Invero, il Giudice delle leggi, richiamato il proprio indirizzo giurisprudenziale, ritiene che le condizioni di ammissibilità delle censure sono soddisfatte, perché “le ricorrenti assumono che, con l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che riduceva le possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle Regioni e regolamentare degli enti locali, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si sono riespanse. (…) Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (…), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali”.
L’argomentazione costituisce chiaramente un “artificio”, con cui la Corte evita di dover dichiarare inammissibile la censura proposta, riuscendo a giungere ad una pronuncia di merito che tuteli l’esito referendario. E, per dimostrare che si tratta effettivamente di un (utile) “artificio”, basta richiamare alla mente la sent. n. 325 del 2010. Lì la Corte si pronunciava propria sulla legittimità costituzionale  dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (poi abrogato dal referendum e ora sostanzialmente ripreso dalla nuova normativa oggetto di impugnazione) e riteneva che “la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (…) va ricondotta (…) all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ‘tutela della concorrenza’”. Dal che consegue che “la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza” (Considerato in diritto, 7.).
Orbene, se è vero che il nuovo art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 è sostanzialmente analogo al più volte richiamato art. 23-bis (abrogato col referendum), se ne deve dedurre, mutatis mutandis, che il giudizio di prevalenza della competenza statale su quelle regionali e locali formulato nella sentenza n. 325/2010 in riferimento a quest’ultima disposizione debba valere anche per la prima. Ma se la competenza statale sulla “tutela della concorrenza” è prevalente rispetto a quella residuale sui “servizi pubblici locali”, non è chi non veda come non possa mai prodursi alcuna “possibile ridondanza” sulle competenze regionali, per via del ripristino della normativa abrogata dal referendum. Infatti, una “ridondanza” vi può essere quando sull’oggetto di disciplina permane la potestà legislativa regionale; permanenza che, però, in tale caso può escludersi, una volta affermata la prevalente riconducibilità del nucleo essenziale della disciplina alla competenza esclusiva statale sulla “tutela della concorrenza”.
Nel nostro ordinamento, peraltro, se un oggetto di disciplina appartiene alla competenza legislativa esclusiva statale, il solo fatto che il legislatore nazionale rinunci ad esercitare su di essa la propria potestà non comporta l’assegnazione della medesima alle Regioni, né tale evenienza può verificarsi in presenza di un “vuoto” normativo, come quello apertosi a seguito della consultazione referendaria.
Per questa parte, dunque, il percorso argomentativo della Corte soffre di un eccessivo attaccamento al precedente consolidato orientamento, che la porta, pur di riuscire ad arrivare alla pronuncia di merito, ad affermare quanto in precedenza negato, nonostante in più punti della decisione essa stessa si richiami proprio alla sentenza n. 325 del 2010.
Dalla vicenda non può che trarsi la conclusione che l’asimmetria tra Stato e Regioni nell’invocazione dei parametri costituzionali risulta spesso essere un anacronistico retaggio del primo regionalismo, che stride con la posizione assegnata alla Regioni dal nuovo Titolo V, nel quale scompare ogni altra asimmetria, come il controllo di merito sulle leggi regionali e i diversi regimi di controllo preventivo (sulle leggi regionali) e di controllo successivo (su quelle statali).
Le forzature che talvolta, come in questo caso, accompagnano l’affermazione di una lesione indiretta delle competenze regionali potrebbero essere evitate se la Corte mutasse il proprio orientamento giurisprudenziale, agevolando il suo stesso lavoro.
D’altronde, non può negarsi che, nel caso di specie, i ricorsi regionali hanno assolto un’indubbia funzione – per così dire – di “igiene costituzionale”, se sol si pensi che per il loro tramite non è stato posto nel nulla l’esito del referendum del 12-13 giugno 2011, a prescindere da ogni giudizio sulla meritevolezza, o meno, della scelta lì effettuata.
Un revirement della Corte sul punto gioverebbe anche in altre occasioni, in quanto renderebbe possibile un tempestivo esercizio del controllo di costituzionalità sugli atti statali (senza dover attendere l’instaurazione di un giudizio, nel quale sollevare la questione in via incidentale), ma soprattutto riuscirebbe ad “illuminare” alcuni “coni d’ombra” della nostra giustizia costituzionale. Si riuscirebbero, cioè, a rendere più agevolmente giustiziabili alcune discipline, che raramente potrebbero per altra via giungere all’attenzione dello scrutinio di costituzionalità della Corte (ad esempio, la legge elettorale nazionale). 

PAOLO COLASANTE

domenica 20 maggio 2012

Bar che chiudono per motivi di ordine pubblico

Da recenti notizie di stampa s’apprende della chiusura forzata, per 15 giorni, di due bar della Città di Teramo: “Baratto” di Sant’Atto e “Clarizia” del quartiere Gammarana.
La chiusura è stata disposta dal Questore della Provincia di Teramo perché i due esercizi sarebbero frequentati da pregiudicati. La medesima Autorità di pubblica sicurezza, sempre stando al racconto dei giornali, non ricollega l’adozione dei provvedimenti a responsabilità riferibili ai gestori dei due luoghi di ritrovo, ma ha deciso comunque di sospendere loro le licenze.
Bisogna dunque chiedersi quanto sia compatibile con il nostro ordinamento costituzionale un provvedimento del genere e, soprattutto, quanto siano costituzionalmente accettabili le conseguenze che ne sono scaturite.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, e cioè secondo le sentenze che diversi giudici hanno già pronunciato in casi simili, non è in effetti necessario che il Questore ravvisi delle responsabilità in capo ai gestori degli esercizi per decidere di sospendere o di revocare loro le licenze, dal momento che la legge di cui si fa applicazione in questi casi – art. 100 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.) – non ha una finalità punitiva, ma semplicemente persegue la tutela dell’ordine pubblico, della moralità, del buon costume o della sicurezza dei cittadini. Temi di costante attualità – almeno per quanto riguarda la sicurezza e l’ordine pubblico – malgrado la vetustà della norma: classe 1931.

Detta così, la notizia potrebbe non destare particolare preoccupazione. Potrebbe anzi ristorare la fame di sicurezza che molte persone avvertono. L’idea che il Questore, in caso di pericolo, chiuda, vieti, proibisca, potrebbe persino rinfrancare il miraggio di città più sicure e tranquille.
Come spesso accade, però, ragionamenti troppo frettolosi rischiano di scadere nella demagogia e di perdere di vista l’essenza delle cose e la tutela dei singoli: avvertita come necessaria non tanto dall’etica o dalla morale, ma dalla nostra Carta costituzionale, che troppo spesso viene relegata sullo sfondo. Una delle maggiori conquiste del nostro ordinamento costituzionale è, appunto, la tutela dell’individuo. Del singolo. Tutela in passato sempre costantemente sacrificata a vantaggio di altri interessi, come, ad esempio, quello pubblico.
Anche oggi l’interesse pubblico trova una tutela privilegiata nel nostro ordinamento, ma la Costituzione non permette che l’interesse del singolo ne esca eccessivamente svilito o persino annullato.

Per comprendere se il provvedimento adottato dal Questore sia o meno legittimo – e soprattutto se lo siano le sue conseguenze – bisogna per un attimo accantonare, senza dismetterle, le vesti della collettività, della moltitudine, ed indossare i vestimenti del gestore, del barista, del cameriere, oltreché dei congiunti di costoro che sui loro redditi fanno affidamento.
Individualità tutelate dal diritto, non dal ben pensare.
Trovarsi improvvisamente senza proventi, lasciar marcire beni alimentari deteriorabili, accantonare ampie riserve di cattiva pubblicità, non poter far fronte alle esigenze quotidiane per sé e per la propria famiglia sono tutte questioni economicamente apprezzabili. In altri termini: hanno un costo. Di questo costo deve farsi carico la Pubblica Amministrazione, che ha perseguito la tutela dell’interesse pubblico. Non il singolo.

Si pensi ad esempio all’esproprio per pubblica utilità. La Costituzione ammette che il proprietario di un terreno ne venga espropriato perché su di esso possa essere edificato un ospedale o una strada o qualunque altra cosa ma pretende che al proprietario medesimo venga riconosciuto un indennizzo.
Dunque le considerazioni conclusive sono due.
Da un lato è necessario verificare se il provvedimento ha davvero tutelato l’interesse pubblico, non dimenticando che “l'esercizio del potere attribuito al questore dall’art. 100 t.u.l.p.s. del 1931 incontra un limite nell’effettiva sussistenza di situazioni di fatto di particolare gravità ed allarme sociale concretamente idonee a mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza pubblica, poiché solo detti presupposti giustificano la compressione di una libertà costituzionalmente tutelata come quella dell'iniziativa economica privata” (così T.A.R. di Bologna, sez. I, 19 settembre 2003, n. 1567).
Dall’altro lato, sempre che ragioni di necessità vi fossero e fossero concrete, bisogna indennizzare la sospensione della licenza e a beneficiare dell’indennizzo dovrebbero essere i gestori ed i lavoratori dipendenti degli esercizi. In questo senso, sarebbe auspicabile una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21 quinquies della legge 241/1990 del quale bisognerebbe fare applicazione anche ai casi come quello in esame. Sia in caso di sospensione che di revoca. Così recita la disposizione citata al primo comma: “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo”.
Laddove un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma de qua non fosse praticabile in ragione di un insanabile contrasto con la lettera della disposizione, allora bisognerebbe concludersi per l’incostituzionalità dell’art. 100 del T.U.L.P.S., nella parte in cui non prevede un equo indennizzo per coloro che, pur esenti da responsabilità, si vedano sospesa o revocata la licenza.

ANDREA CERRONE

mercoledì 9 maggio 2012

Proposte per superare la crisi economica, ambientale e sanitaria della Valle dell'Agri

COPAMS 2012
Conferenza Petrolio Ambiente Salute

Sala Convegni
Hotel Sirio
Villa D’Agri (PZ)
25 – 26 maggio 2012

Programma


Venerdì 25 Maggio - Villa d’Agri


Ore 17.00 - Il Petrolio e la crisi dello sviluppo territoriale ecosostenibile

Modera: Rosa Fortunato
Comitato Civico “Sor Aqua” - Coordinatore “La Locomotiva
Introduce: Antonio Bavusi, OLA
Testimonianza: Vincenzo Capogrosso, residente in C/da Vigne di Viggiano
Interventi:
Maurizio Bolognetti, Direzione Nazionale Radicali Italiani
Pietro Dommarco, Coordinatore Ola - Giornalista Altraeconomia
Domenico Ferrara, Mov. Politico Contro l'Indifferenza
Francesco Masi, Laboratorio del Marmo-Melandro per i Beni Comuni
Anna Maria Palermo, Responsabile regionale Libera
Giovanni Samela, Associazione “Cento Comuni”
Miko Somma, Comunità lucana (No Oil)

0re 18.30 - Il Petrolio e la crisi politico-istituzionale

Testimonianza: Pinuccio Cudemo, “Pro Vita Sana” Sant’Arcangelo
Interventi:
Sergio Annunziata, Sindaco di Atena Lucana
Pasquale De Luise, Sindaco di Spinoso
Vito Di Trani, Sindaco di Pisticci
Michele Grieco, Sindaco di Paterno
Tommaso Pellegrino, Sindaco di Sassano

Dibattito

Ore 21.00 - Cena (aperta a tutti con prenotazione)


Sabato 26 Maggio - Villa d’Agri

Ore 9.00 - Il Petrolio e la crisi agricola, turistica e industriale

Modera: Arturo Caponero, Circolo Legambiente Montalbano
Introduce: Rita D’Ottavio, La Locomotiva
Testimonianza: Massimo Miranda, Allevatore di Viggiano
Interventi:
Gianfranco Atella, Comitato regionale Acqua Pubblica
Terenzio Bove, Dottore di Ricerca in produttività delle piante coltivate (La Locomotiva)
Gianni Fabbris, Altragricoltura - Comitato “Terre Joniche”
Francesca Leggeri, Operatore agrituristico
Francesco Pisani, Produttore vitivinicolo - biologico
Antonio Grazia Romano, Ribelli Web Basilicata
Amedeo Truda, Elbe Sud Italia

Ore 10.00 - Il futuro verde della Basilicata

a cura di: Forum Democratico
Modera: Michelangelo Leone


Ore 11.30 - Il Petrolio e la crisi ambientale e sanitaria

Modera: Ivan Di Palma, Comitato No Petrolio Vallo di Diano
Introduce: Giuseppe Frezza, Ass. “Pro Vita Sana” Spinoso - La Locomotiva
Testimonianza: Cristina Berardone, L’Onda Rosa
Interventi:
Albina Colella, Università della Basilicata
Giampiero D’Ecclesiis, Geologo
Giuseppe Di Bello, Associazione EHPA
Vito Mazzilli, Presidente WWF Basilicata
Giambattista Mele, Laboratorio per Viggiano - La Locomotiva
Camilla Nigro, L’Onda Rosa - La Locomotiva

Ore 13.30 - Pranzo (aperto a tutti con prenotazione)


Ore 17.00 - Come e perché la Lombardia, l’Abruzzo e la Campania hanno detto NO al Petrolio

Modera: Enzo Alliegro, La Locomotiva
Introduce: Vincenzo Vertunni, Sindaco di Grumento Nova
Comunicazione: Giuseppe Macellaro, (Sui-GeneriS)
Interventi:
Alberto Saccardi - Giovanni Zardoni, Comitato No al pozzo nel Parco del Curone (Lecco)
Carlo Costantini, Capogruppo IdV Regione Abruzzo
Raffaele Accetta, Presidente Comunità Montana “Vallo di Diano e del Cilento”

Ore 19.00 - Per una legge regionale sull’intero comparto estrattivo

Enzo Di Salvatore, Professore di Diritto Costituzionale, Università di Teramo
(autore del volume: Abruzzo color petrolio)


Dibattito e Conclusioni

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I lavori saranno trasmessi in diretta nazionale su radio radicale e in streaming su olachannel http://www.olachannel.it/ e sulla radio locale radio color
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La locomotiva della Valle dell'Agri

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
Rosa Fortunato, 3489008317
Rita D’Ottavio, 3204035055
Camilla Nigro, 3346787390
Giambattista Mele, 3275797508
Terenzio Bove, 3931292811

venerdì 20 aprile 2012

Lettera di diffida dell'Associazione Jonathan inviata alla ASL di Lanciano-Vasto-Chieti relativa ai "criteri di esclusione alla donazione" del sangue


(Riceviamo e pubblichiamo)


Lettera dell’Avv. Andrea Cerrone inviata per conto dell'Associazione Jonathan - Diritti in movimento all’Azienda Sanitaria Locale di Lanciano-Vasto-Chieti
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A nome e nell’interesse dell’Associazione Jonathan - Diritti in Movimento, con Sede legale in Pescara alla via Palermo n. 41, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore sig. Marco Lozzi, rappresento quanto segue.

L’Associazione, che ha tra i suoi obiettivi statutari la tutela, tra gli altri, dei diritti delle persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, si duole per la decisione dell’Azienda di sottoporre, a coloro che si avvicinano alla donazione del sangue presso il Servizio aziendale di immunoematologia e medicina trasfusionale dell'Ospedale “Floraspe Renzetti” di Lanciano, un documento retrivo, discriminatore e sideralmente distante dalle più elementari conoscenze medico scientifiche in tema di trasmissione delle malattie a contagio sessuale.
Il predetto documento, recante i “criteri di esclusione alla donazione”, che per Vs. opportuna conoscenza si allega in copia alla presente, pur essendo ciclostilato col vecchio logo “Azienda Sanitaria Locale 03 Lanciano-Vasto”, viene tutt’ora sottoposto agli aspiranti donatori: diffondendo preconcetti, sconforto e disinformazione. Così contribuendo a vanificare, del tutto gratuitamente, il lavoro immane di chi lotta ogni giorno per la tutela dei diritti fondamentali dell’essere umano: contro l’omofobia, la transfobia ed ogni altra forma di ingiusta ed assurda discriminazione.
Il documento, pur facendo appello al “profondo significato filantropico” che, effettivamente, contraddistingue l’alto gesto di donare il sangue, risulta essere avaro in termini di umanità, nonché pregno di preconcetti privi di riscontro scientifico.
Tra i primissimi punti di un elenco di 11 condizioni che precludono all’aspirante donatore di offrire al prossimo il proprio sangue si legge, al numero 2, la dicitura: “Rapporti omosessuali” e al numero 3: “Rapporti sessuali con persone sconosciute”.
Conviene, per zelo, esaminare entrambe le diciture: tutt’ e due patentemente errate e gravemente approssimative. Quella di cui al numero 3, ad esempio, evoca un mito sfatato da lunghi anni, specie in tema di trasmissione del virus dell’immunodeficienza umana, che prioritariamente vuole scongiurarsi nell’ambito della donazione di sangue. Distinguere tra persone conosciute e sconosciute in questo campo è fuori luogo e fuori dal tempo. Più opportuno, invece, sarebbe stato un esplicito riferimento ai rapporti protetti e non protetti. Incredibilmente mai citati; quasi si patisca il peso di un pregiudizio dottrinale/religioso.
Non sono infrequenti le infezioni tra partner, figurarsi tra persone non sconosciute.
La promiscuità sessuale e i comportamenti a rischio, in generale, cui eventualmente si espongono i conoscenti, gli amici o persino il partner dell’aspirante donatore non sono sempre nel dominio di quest’ultimo. Non può valere un lato principio d’affidamento a terzi, in questa delicata materia.
È l’utilizzo del preservativo o di altri presidi che allontana la trasmissione delle più gravi M.S.T. Non è infrequente che la persona sieropositiva neppure sappia di essere entrata in contatto col virus. Non vi sono sintomi eclatanti. Anzi, l’infezione, per definizione, rimane silente negli anni e ciò non pregiudica certo la trasmissibilità del virus.
In altri termini, non basta essere eterosessuali ed avere rapporti con partner conosciuti per scongiurare la trasmissione del virus.
Altro punto assai dolente è quello di cui al numero 2 dei “criteri di esclusione alla donazione”. Anche qui nessun riferimento ai rapporti sessuali protetti e non, responsabili o irresponsabili, quasi a voler intendere che il sangue di una persona gay sia infetto o rischioso a prescindere e così proscritto da ogni logica solidaristica e filantropica.
Orbene, divulgare, in modo massivo, concetti ambigui, così retrivi e grandemente approssimativi lede la dignità della persona umana, alimentando la discriminazione, l’odio e l’omofobia e prestando il fianco a coloro i quali cercano ogni appiglio per oltraggiare gli omosessuali.
La mancanza di precisione, l’approssimazione e la divulgazione di concetti pseudoscientifici, infatti, finisce per contravvenire all'obbligo di solidarietà sociale enunciato dall'art. 2 della Costituzione che, come rimarcato da un recente pronunciamento della Corte costituzionale (Sentenza n. 138/2010), ricomprende, tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo che vanno tutelate, anche quelle omosessuali.
Non si trascuri la grande lotta portata avanti dall’Unione europea contro l’omofobia. La Legge 2 agosto 2008 n. 130 ha ratificato il Trattato di Lisbona che, modificando il Trattato sull’Unione europea, ha fatto proprio il riconoscimento dei diritti contenuti nella c.d. Carta di Nizza, la quale vieta le discriminazioni fondate sulle tendenze sessuali. Tutto ciò nella consapevolezza che l’omofobia insidia ancora la società contemporanea per cui, specie in capo alle Amministrazioni pubbliche, si pretende che si faccia attenzione e che si usi cautela nel diffondere certuni concetti.
Così, appena qualche giorno fa, si è espresso il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, a Ginevra, presso la Sede della Commissione O.N.U. per i diritti umani: “Alle lesbiche, gay, bisessuali o transgender, lasciatemi dire: non siete soli. La vostra battaglia per la fine della violenza e della discriminazione è una battaglia condivisa. Ogni attacco a voi è un attacco ai valori universali delle Nazioni Unite che ho giurato di difendere e promuovere. Oggi sto con voi e invito tutti i paesi e i popoli a stare dalla vostra parte”.
L’auspicio è che anche la Regione Abruzzo e la ASL 02 Lanciano, Vasto, Chieti stiano dalla parte della non discriminazione.
Donare il sangue è un gesto di grande civiltà. Donare il sangue e gli emocomponenti significa, molto spesso, salvare una vita. Tante vite. Il lavoro compiuto ogni giorno, specificamente, dal personale del Servizio di immunoematologia dell’Ospedale Renzetti di Lanciano è un lavoro faticoso ed insostituibile, peraltro di comprovata ed elevatissima competenza. Ben nota anche al di fuori dei confini regionali. Si tratta di una vera e propria struttura d’eccellenza della quale tutti debbono andare fieri.
Evidentemente, per via di un grossolano errore, concentrandosi il lavoro dei medici, degli infermieri e del personale tutto sugli aspetti più propriamente medico scientifici della donazione del sangue, si è trascurato un aspetto apparentemente banale ma in realtà importantissimo. Non sostituendo un vecchio documento divulgativo con uno più appropriato ed attuale si è effettivamente prodotto un danno.
A farne le spese sono tutte quelle persone che ogni giorno vengono discriminate per via del loro orientamento sessuale o per la loro disforia di genere. Dileggiate per quel che sono: per la loro natura; mai più malattia, come saggiamente insegnato, ormai da moltissimi anni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Scansate o persino emarginate per via di una logica retriva che le vuole ontologicamente dedite alla promiscuità. Dimenticandosi che esse, come tutte le altre, sono persone: esseri umani con sentimenti, sofferenze e diritti. Oggi giuridicamente tutelati.
Gli individui che ogni giorno, ancora oggi ed in questo Paese, si scoprono omosessuali o transessuali vanno incontro ad una serie interminabile di difficoltà, talora gravissime. S’è stimato che innumerevoli sono i casi di adolescenti che tentano il suicidio sol perché si scoprono omosessuali e, purtroppo, la letteratura medica e quella sociologica pullulano di statistiche disarmanti, in questo senso.
Ciò deve rafforzare il senso di responsabilità di tutti e, per prime, delle Istituzioni, le quali debbono usare un linguaggio attuale e cauto, sempre consapevoli del danno che ogni leggerezza ed ogni approssimazione possono produrre.
Certo che le Signorie Loro sapranno prontamente rimediare al problema ampiamente illustrato, dandomene opportuna conoscenza, ho l’obbligo di diffidare formalmente, così come effettivamente diffido, l’Azienda Sanitaria Locale n. 2 Lanciano- Vasto- Chieti, in persona del suo Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore, a provvedere immediatamente affinché cessi la diffusione del documento recante “CRITERI DI ESCLUSIONE ALLA DONAZIONE”, allegato alla presente e sottoposto agli aspiranti donatori, come meglio specificato in narrativa. Sarà cura dell’Azienda sostituirlo con un documento attuale e scientificamente apprezzabile. Diversamente, mi vedrò costretto a rivolgermi all'Autorità giurisdizionale, ove chiederò anche il ristoro dei danni per conto dell'Associazione Jonathan - Diritti in Movimento, rappresentante degli interessi collettivi e diffusi che ho descritto.

Distinti saluti.

Lanciano - Pescara, 27 marzo 2012.

Avv. Andrea Cerrone Ph.D.

mercoledì 21 marzo 2012

L’Unione fa la forza: i piccoli Comuni e la sfida del Patto di stabilità

Per i cinefili “Patto con la morte” è semplicemente un film di Stephen Becker; per i Comuni è sinonimo di un altro Patto: quello di stabilità interno. Introdotto con legge n. 448 del 1998 (art. 28) al fine di responsabilizzare finanziariamente i vari livelli di governo, esso escludeva dall’ambito soggettivo i piccoli Comuni. Questa situazione, però, è ora mutata. Secondo l’art. 25, comma 6, del d.l. n. 1/2012, infatti, dal 2013 sottoposti ai vincoli del patto non saranno solo le Province ed i Comuni con più di 5000 abitanti, ma anche i Comuni con più di 1001 abitanti. A partire dal 2014, invece, cesserà la premialità, da sempre prevista, per le Unioni di Comuni. L’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138/2011, estende la disciplina del Patto alle Unioni costituite da enti con meno di 1000 abitanti. Da un’attenta lettura di quest’ultima disposizione emerge un’incongruenza, se non un vero e proprio vacuum normativo. I Comuni con più di 1001 abitanti potrebbero evitare l’incudine del Patto di stabilità delegando all’Unione di Comuni l’esercizio congiunto di alcune funzioni, in conformità all’art. 32 TUEL. Così facendo, la soggezione al Patto sarebbe circoscritta alle funzioni non trasferite. Lo stesso discorso non può essere svolto, invece, per i Comuni con meno di 1000 abitanti, i quali, dal 2014, non saranno incentivati ad unirsi, nonostante siano i principali beneficiari potenziali della disciplina prevista dall’art. 32 TUEL. Neanche la circolare n. 5/2012 del 14 febbraio della Ragioneria dello Stato, deputata a dettare i criteri interpretativi per l’applicazione della disciplina pattizia, ha fugato i dubbi nutriti in proposito.

L’idea di questo intervento è nata pensando al mio Comune di residenza. A parere di chi scrive, Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbero pensare di dare nuova linfa alla propria organizzazione ridisegnando la loro struttura in un’ottica unitaria, sulla base di quanto affermato in un recente convegno dal dirigente toscano Izzi, secondo cui “il Comune come lo conosciamo oggi non ci sarà più”. L’istituzione dell’Unione, però, consiste in un vero e proprio processo di trasformazione culturale, non privo di ostacoli. In primo luogo, nonostante si viva nell’era della globalizzazione, il virus del campanilismo non è ancora debellato (c.d. "paradigma dell’identità"). In secondo luogo, non sempre l’opinione pubblica è in grado di dare un giudizio completo ("limbo del consenso"), soprattutto per il ricorso a canali comunicativi poco apprezzati dalla popolazione ("Mismatching comunicativo").

Le Unioni di Comuni mostrano molti elementi di comunanza, soprattutto con riferimento alle funzioni delegate. Queste ultime, e le relative risorse, sono definite dallo Statuto, approvato dai Consigli dei Comuni partecipanti, ai sensi dell’art. 32 TUEL. L’obiettivo di ogni singola Unione dovrebbe essere quello di “omogeneizzare verso l’alto i servizi forniti alla popolazione” [Bolgherini]. Per fare ciò, i singoli Comuni rinunciano a fette di competenze in favore dell’ente sovracomunale, che garantirà l’omogeneità dei servizi su tutto il territorio, in termini procedurali, di costi e di offerta. Dall’analisi di alcuni Statuti di Unioni, queste sono le principali funzioni oggetto di gestione congiunta: le attività istituzionali e di segreteria; l’Ufficio per le relazioni col pubblico; la tutela legale; i servizi demografici; i servizi cimiteriali; il personale; le entrate tributarie e i servizi fiscali; gli appalti e i contratti di lavori, servizi e forniture; i servizi statistici, informativi e di e-governament; la polizia municipale; la viabilità, la circolazione e i servizi connessi; la gestione del territorio (catasto, gestione e manutenzione del verde pubblico, vigilanza e controllo antisismico, ecc.); i servizi tecnici, urbanistica ed edilizia; lo sviluppo economico; lo sportello unico delle attività produttive; i servizi sociali; le politiche abitative e le funzioni comunali in materia di edilizia residenziale pubblica; i servizi scolastici; la cultura, il turismo e le attività ricreative; l’agricoltura e l’ambiente; la difesa idrogeologica del territorio; la gestione e la valorizzazione del patrimonio forestale.

Sembrerebbe tutto facile, ma non è così. Quanto alla costituzione di un corpo di polizia municipale (rectius: dell’Unione), le difficoltà attengono essenzialmente alla dipendenza dei vigili urbani dai sindaci. Per esempio, l’Unione Terre di Castelli ha optato per una funzione mista creando un corpo unico di vigili, con presidi in ogni Comune. Non meno complicato è il trasferimento dei servizi demografici. Infatti, molte competenze sono proprie dello Stato e vengono svolte dal Sindaco in qualità di ufficiale civile: non sono delegabili. Last but not least, il trasferimento del personale. Senza dubbio, rappresenta l’elemento fondamentale per l’efficacia dell’Unione, e per la sua durata, sebbene un fattore determinante sia rappresentato dal numero dei Comuni facenti parte dell’Unione. Nel caso prospettato per i Comuni di Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbe verificarsi l’effetto contrario. Il numero esiguo di Comuni potrebbe essere sinonimo di precarietà dell’Unione, il cui fallimento renderebbe problematica la ricollocazione dei dipendenti. Il discorso sarebbe diverso se l’Unione si estendesse anche agli altri comuni contermini. È opportuno ricordare, però, che nella quasi totalità dei casi, il trasferimento del personale ha portato ad una riduzione dello stesso e dei relativi costi, ma anche ad un miglioramento qualitativo della struttura amministrativa e burocratica.

Per concludere vorrei tornare al punto di partenza. Il ricorso all’Unione di Comuni potrebbe essere la strada da seguire per quei Comuni con più di 1000 abitanti, finora mai soggetti al Patto di stabilità interno. Sia chiaro, questo suggerimento non è rivolto ad eludere la norma, ma ha obiettivi più lungimiranti. Nonostante il Patto sia stato violato da una piccola percentuale di enti, la riduzione del debito pubblico è stata piuttosto contenuta. Questo dimostra la miopia o la “stupidità” del Patto. La colpa non è del Patto, ma del Legislatore. A tal proposito, la decisione di dar vita ad un soggetto intercomunale deve essere vista come una sfida d’efficienza, al fine di ottenere risultati migliori rispetto a quelli che si otterrebbero se ci limitasse a rispettare il Patto. La sopravvivenza di alcuni piccoli Comuni, e cioè la maggior parte di quelli italiani, passa dalla capacità di sapersi innovare. Il Patto è un rimedio agli errori del passato, l’innovazione è la sfida per il futuro.


NICOLA PISCIAVINO

giovedì 8 marzo 2012

L’Abruzzo discute di riforme istituzionali e riflette poco sulle sue leggi

Le forze politiche abruzzesi ritengono che la questione delle riforme istituzionali costituisca un problema non più eludibile. La discussione ruota ormai da tempo intorno a due temi principali: la riforma del Consiglio e la riforma della legge elettorale. Quanto al primo, quasi tutti affermano che occorra ridurre l’attuale numero dei consiglieri regionali. Quanto al secondo, da più parti si sostiene che occorra innalzare la soglia di sbarramento (fino al 6% per le liste di coalizione), prevedendo possibilmente un collegio elettorale unico (come auspica Confindustria) ed anche un premio di maggioranza tutto da definire. Il dibattito, insomma, si concentra intorno all’organo Consiglio, non sull’attività che questo svolge. Eppure è proprio l’attività del Consiglio che meriterebbe una riflessione più approfondita. Certo, soggetto (Consiglio) e oggetto (attività) sono tra loro strettamente collegati. Ma non si vede in che modo dalla riforma del Consiglio e della legge elettorale possa scaturirne un sicuro beneficio per l’attività normativa della Regione.
Nel panorama della produzione legislativa regionale, l’Abruzzo risulta essere particolarmente attivo: nel solo 2010 il Consiglio ha varato ben 62 leggi; nel 2011 ne ha approvate 44. Questi dati, però, devono essere letti cum grano salis, in quanto di per sé potrebbero non voler dire niente. Essi non dicono niente anzitutto sulla qualità della legislazione, in quanto molte delle leggi approvate derivano da un autentico copia e incolla: si naviga su internet, si cerca nei siti istituzionali delle altre Regioni, si copia e incolla su un file di word la legge trovata e la si presenta sotto forma di progetto di legge in Consiglio. Un’operazione, insomma, che ciascuno di noi potrebbe comodamente effettuare da casa. In secondo luogo, occorrerebbe verificare attentamente quale sia il contenuto di quelle leggi. Molte di esse, infatti, sono “leggine” o “leggi-provvedimento”: la Regione interviene con legge su tutto, persino se si tratta di istituire la “Giornata degli Abruzzesi nel Mondo” o il “Concorso Remo Gaspari”. Del resto, non è un caso se ad una così alta produzione legislativa corrisponda un’attività regolamentare pari a zero. Secondo quanto stabilisce lo Statuto della Regione, la potestà regolamentare spetta in via esclusiva al Consiglio. Nel 2010, però, la Regione Abruzzo non ha varato un solo regolamento. Questo spiegherebbe, almeno in parte, come mai la Regione sia così produttiva in fatto di leggi. Non solo. Come mai persino la Giunta ricorra sempre più sovente a delibere “paranormative”.
C’è poi un’altra questione che in relazione all’attività legislativa regionale deve essere considerata. Dal 2003 ad oggi il Governo nazionale ha impugnato 37 leggi della Regione; dal canto suo, la Regione Abruzzo ha impugnato 7 leggi dello Stato. Nella Legislatura in corso, quella del governo Chiodi, il Governo ha impugnato ben 17 leggi regionali (solo tre nei mesi di gennaio e febbraio 2012), mentre la Regione Abruzzo ne ha impugnata solo una. Il che lascerebbe pensare o che le leggi dello Stato siano tutte, tranne una, perfettamente rispettose della Costituzione oppure che la Regione Abruzzo sia al riguardo particolarmente distratta. Ebbene, quale esito hanno avuto detti ricorsi? Mi limito qui a considerare il biennio 2010-2011. Nel 2010 la Corte si è pronunciata 6 volte: in due casi con ordinanza (posto che la Regione aveva nel frattempo modificato la legge impugnata) e negli altri quattro con sentenza. Le quattro sentenze hanno dichiarato tutte (almeno in parte) l’illegittimità delle leggi impugnate. Il dato che appare più curioso è che in nessuno dei 6 casi la Regione ha ritenuto di doversi difendere in giudizio. Nel 2011, invece, la Corte è intervenuta 7 volte: due con ordinanza e cinque con sentenza. Anche qui, le sentenze adottate hanno dichiarato tutte l’illegittimità costituzionale delle leggi impugnate. E per ben due volte la Regione ha rinunciato a difendersi in giudizio. Ricapitolando: nel solo biennio 2010-2011 si sono avute 9 pronunce di illegittimità costituzionale e per ben 8 volte nessuno ha difeso la legge della Regione Abruzzo dall’impugnazione del Governo nazionale. Ci sarebbe da chiedersi: il ricorso al copia-incolla, l’adozione di “leggine” e di “leggi-provvedimento”, l’approvazione di leggi poi dichiarate illegittime, la rinuncia all’impugnazione di leggi statali e soprattutto la rinuncia alla difesa delle leggi regionali dinanzi alla Corte significano davvero che la Regione Abruzzo tiene in alta considerazione il suo massimo consesso? Perché se così non fosse, anche il dibattito su quale riforma convenga al Consiglio potrebbe finire per essere un dettaglio parzialmente trascurabile.

ENZO DI SALVATORE

venerdì 2 marzo 2012

Pasolini e i "No Tav"

Il giovane manifestante “No Tav”, che irride con frasi colme di disprezzo il giovane carabiniere inerme, ha evocato in taluni il ricordo dei tristi fatti di Valle Giulia e le parole che Pasolini pronunciò allora contro gli universitari in difesa dei celerini. Questo parallelo, che firme più o meno autorevoli del giornalismo italiano hanno ritenuto con convinzione di poter tracciare, risulta, a mio parere, del tutto superficiale. Non si tratta ovviamente di sapere quel che oggi avrebbe pensato Pasolini dei fatti di Val di Susa. Si tratta di sapere, invece, se quella analisi sociologica possa estendersi immutata agli scontri in atto.
A Valle Giulia, nel 1968, la contrapposizione tra studenti e poliziotti portava Pasolini a scrivere di “lotta di classe”. Una lotta che finì per mostrare il lato più inconsapevole della condizione vissuta dai protagonisti di quegli accadimenti: gli universitari, borghesi e figli di papà, da un lato; i poliziotti, non-borghesi e figli di operai e contadini, dall’altro. Due classi distinte, separate l’una dall’altra. Meglio detto. Una classe e una non-classe divise da una distanza sociale irriducibile: quella che lottava (gli studenti universitari figli della borghesia) e quella che non ha mai lottato (i poliziotti figli di operai e contadini). Vorrei essere più preciso. Nel caso del proletariato, della lotta dei padri non ne hanno beneficiato ideologicamente i figli-poliziotti; nel caso del sottoproletariato, della mancata lotta ideologica ne hanno “beneficiato” tutti gli altri: contadini da sempre, essi non hanno mai costituito una vera “classe” e già l’utilizzo del sostantivo “sottoproletariato” starebbe a provarlo. Sarebbe mai venuto in mente a qualcuno di definire la classe degli operai come classe della sottoborghesia?
Ora, a me pare che in Val di Susa non vi sia alcun “frammento di lotta di classe”. Chi leggesse con onestà lo scontro tra i "No Tav" e le forze dell’ordine con gli occhi di Pasolini arriverebbe alle seguenti conclusioni: che tra i "No Tav" non vi sono solo studenti universitari, ma anche impiegati, operai, contadini, disoccupati; che gli studenti universitari del 2012 non sono quelli del 1968, in quanto essi sono per lo più figli di impiegati, di operai, di contadini, di disoccupati ed anche figli di carabinieri e di poliziotti; che tra le forze dell’ordine vi sono figli di impiegati, di operai, di contadini, di disoccupati ed anche figli di carabinieri e di poliziotti. Se, dunque, nel 2012 di “classe” si vuole ancora parlare, deve parlarsi di medesima “non-classe”. Una “non-classe” che, da qualunque parte la si osservi, non ha “facce di figli di papà”. Gli universitari del ’68, i figli della borghesia di allora, non sono a Val di Susa. Quindi sarebbe vano cercarli lì. Essi sono altrove, magari a decidere che la Tav, costi quel che costi, comunque si farà.

ENZO DI SALVATORE