domenica 23 marzo 2014

La legge italiana sulle elezioni europee: illegittima, irragionevole, paradossale

La legge che disciplina le elezioni dei membri italiani al Parlamento europeo impone che ciascuna lista dei candidati ottenga almeno il 4% dei voti validamente espressi per poter accedere al riparto dei seggi.
Nei sistemi elettorali nazionali, la previsione di una clausola di sbarramento si collega, in verità, alla necessità di garantire, ad un tempo, la governabilità e la rappresentatività. Ciò comporta che il diritto di voto dell’elettore (dunque: il principio democratico) possa essere limitato solo a fronte della necessità di favorire la governabilità, evitando, così, l’eccessiva frammentazione della rappresentanza in Parlamento. Questa esigenza, tuttavia, non sembra riscontrarsi nel caso del Parlamento europeo, posto che, sebbene le liste elettorali recheranno la designazione del candidato alla presidenza della Commissione, il sistema istituzionale europeo risulta ancora politicamente primordiale e tale da non giustificare la lesione della parità del voto dei cittadini. È su questi presupposti, del resto, che il 26 febbraio scorso il Tribunale costituzionale tedesco ha dichiarato illegittima la soglia di sbarramento del 3% fissata dalla legge tedesca per le elezioni al Parlamento europeo.
La legge elettorale italiana stabilisce, inoltre, che in ogni circoscrizione “le liste dei candidati devono essere sottoscritte da non meno di 30.000 e non più di 35.000 elettori” e che “i sottoscrittori devono risultare iscritti nelle liste elettorali di ogni regione della circoscrizione per almeno il 10 per cento del minimo fissato al secondo comma, pena la nullità della lista”.
La combinazione di queste due previsioni rende, però, la disciplina complessiva – oltreché irragionevole per via del fatto che, ai fini della raccolta delle firme, essa considera allo stesso modo le regioni più popolose e quelle meno popolose – paradossale rispetto agli effetti che derivano dall’applicazione della clausola di sbarramento. Tanto per fare un esempio, nelle trascorse elezioni per il Parlamento europeo i voti validamente espressi in Valle d’Aosta sono stati 55.759 (escluse le schede bianche e nulle). Volendo provare a calare nel contesto regionale della Valle d’Aosta la soglia di sbarramento del 4% ne viene che sarebbero sufficienti 2.230 voti validamente espressi per poter accedere al riparto dei seggi, ossia: un numero di voti di gran lunga inferiore rispetto a quello richiesto per poter presentare le liste! Per utilizzare una metafora, sarebbe come chiedere alla nazionale di calcio di aver già vinto la finale prima ancora di riuscire a qualificarsi…in finale!
Al di là del fatto che nel 2009, e cioè pochi mesi prima che si votasse per le elezioni al Parlamento europeo, sia stata introdotta per opinabili ragioni di opportunità la soglia di sbarramento del 4%, si osserva che motivi di legittimità e di ragionevolezza e non già di opportunità politica impongono che si proceda ad una modifica della normativa in vigore, con cui si riesca a mettere al riparo la legge e l’esito della competizione elettorale da qualsivoglia futura azione in sede giurisdizionale.


ENZO DI SALVATORE

giovedì 13 marzo 2014

Ambiente: in Europa il PD si inchina al PPE e a Cameron

L’eurodeputato Andrea Zanoni (PD) ha annunciato trionfalisticamente che l’Unione europea si è finalmente dotata di una più moderna ed efficace direttiva sulla valutazione di impatto ambientale e ha dichiarato che in questo modo è stata posta “una pietra miliare nella storia della politica ambientale dell’UE”: se ciò è accaduto lo si deve in gran parte a lui.
A dire il vero, la proposta di direttiva è stata elaborata dalla Commissione e successivamente inviata al Consiglio e al Parlamento, entrambi coinvolti nella procedura legislativa ordinaria. E per capire quanta poca sostanza vi sia nel comunicato diramato dall’eurodeputato è sufficiente leggere attentamente le carte.
Sono trascorsi quasi 30 anni dalla prima direttiva sulla VIA e, nonostante le modifiche apportate nel corso del tempo, i fautori del “fare a tutti i costi” hanno inteso varare una “regolamentazione intelligente”. Nella proposta di direttiva si legge che il ricorso alla valutazione di impatto ambientale comporta sempre costi economici notevoli, con ripercussioni negative sul mercato interno. Per questo è necessario semplificare.
Nessuno nega che la direttiva rechi previsioni condivisibili. Ma l’idea che si continua ad avere dell’ambiente è ancora ferma al 1985: le ragioni economiche devono prevalere comunque sulle ragioni dei beni comuni. Hanno, cioè, sempre la precedenza.
In questa direzione mi pare possano essere lette anche le affermazioni rinunciatarie di Zanoni: “Desidero rendere omaggio alla determinazione della Commissione che ha proposto questo testo sicuramente necessario, ma purtroppo – e lo dico a malincuore – forse troppo ambizioso rispetto alla sensibilità di gran parte di quest’Assemblea. In qualità di relatore da subito ho dichiarato il mio pieno e convinto appoggio a questa proposta condividendone i contenuti. Di conseguenza, le mie proposte si sono limitate a rafforzare il testo come, ad esempio, introdurre una chiara norma contro il conflitto di interessi, o a proporre l’adozione di misure correttive nel caso in cui il monitoraggio e le conseguenti misure di compensazione fossero inefficaci”.
In buona sostanza Zanoni ammette che si è trattato di qualche aggiustamento qua e là.
Se è vero che con la nuova direttiva si rafforza, da un lato, il bagaglio delle informazioni da rendere ai cittadini e si introducono ai fini della valutazione elementi nuovi, è anche vero che, dall’altro, si cerca di limitare la VIA a progetti che possano avere effetti significativi sull’ambiente.
Non si può dire, poi, che la nuova direttiva sia particolarmente generosa con i cittadini, visto che concede loro pochi giorni per esprimere il proprio punto di vista; mentre l’autorità competente è tenuta ad adottare la sua decisione entro tre mesi.
Fortunatamente la sindrome del “procedere rapidamente” (e che sul piano nazionale fa il paio con “il governo del fare”) almeno in un caso è stata debellata, visto che un emendamento proposto dal Parlamento non compare più nella versione licenziata ieri: quella che diceva che “per evitare inutili sforzi e costi superflui” i progetti da sottoporre eventualmente a valutazione di impatto ambientale avrebbero dovuto “contenere una bozza di documento, non superiore alle 30 pagine”. Come se la complessità scientifica possa essere misurata e costretta entro qualche foglio A4.
Accanto a molte conferme, la direttiva reca anche qualche novità (di troppo). Per un verso, si continua a stabilire che “gli Stati membri, in casi eccezionali, possono esentare un progetto specifico dalle disposizioni stabilite nella presente direttiva, in cui l’applicazione di tali disposizioni potrebbero alterare le finalità del progetto, a condizione che gli obiettivi della presente direttiva siano soddisfatti”; per altro verso, si prevede che “nei casi in cui un progetto è adottato da uno specifico atto legislativo nazionale, gli Stati membri possono esentare tale progetto dalle disposizioni relative alla consultazione pubblica prevista dalla presente direttiva, a condizione che gli obiettivi della presente direttiva siano rispettate”.
La direttiva stabilisce, inoltre, che le sue norme non trovino applicazione (e che dunque non si proceda a valutazione di impatto ambientale) ai progetti concernenti la difesa (anche quella relativa alle attività degli alleati, come si specifica nel preambolo della direttiva) e le emergenze civili. E mi pare che in Italia gli esempi non manchino (MUOS, terra dei fuochi, ecc.).
Ma arriviamo ad una delle questioni più spinose: il fracking (la frantumazione delle rocce porose di origine argillosa – scisti – mediante l’utilizzo di liquidi saturi di sostanze chimiche).
Nell’ottobre del 2013 Zanoni ha affermato: “È indispensabile che siano sottoposti a valutazione ambientale anche i progetti di estrazione del gas di scisto che utilizzano la tecnologia del fracking, cioè la fratturazione idraulica, una tecnologia molto impattante perché può causare impatti molto negativi sulla falda acquifera a causa dell’inquinamento che potrebbe essere prodotto[...]. Ci sono casi eclatanti nel Nord America dove questi impianti hanno causato l’avvelenamento delle falde acquifere. In Europa dobbiamo dotarci di tutte le normative necessarie che prevengano ogni problema ambientale per l’estrazione di questi gas”.
Come è andata a finire? Che la previsione della sottoposizione di tali progetti alla valutazione di impatto ambientale è stata immediatamente cancellata. E questo perché l’Europa si è dovuta piegare ai diktat provenienti da Oltremanica. Nel corso del 44° World Economic Forum di Davos in Svizzera, il premier britannico David Cameron ha, infatti, esortato l’Europa ad abbandonare l’idea d’introdurre regole particolarmente gravose per le società operanti nello shale gas, onde evitare la fuga degli investitori. Tali affermazioni sono state rilasciate proprio mentre la francese Total annunciava l’acquisizione del 40% di due permessi di esplorazione per lo shale gas nelle Midlands inglesi.
Per riscuotere successo tra i cittadini inglesi, e neutralizzare così le proteste degli ambientalisti, il conservatore Cameron ha promesso di lasciare agli enti locali il 100% (raddoppiando l’attuale 50%) del gettito derivante dalle tasse pagate dalle società che praticano il fracking: circa 1,7 milioni di sterline per impianto, cui vanno aggiunte 100 mila sterline per ogni esplorazione e la partecipazione – pari all’1% – ai ricavi derivanti dalla produzione. In questo modo, i problemi derivanti da tale pratica estrattiva sono passati rapidamente in secondo piano e il governo ha potuto conseguire indisturbato i propri obiettivi. Greenpeace le ha definite “bribes”, ossia: mazzette.
Le pressioni sul commissario all’Ambiente, Janez Potonick, e sul commissario per il Clima, Connie Hedegaard, hanno, dunque, avuto la meglio: per ora non conviene parlare di fracking. Che tradotto in parole più esplicite vuol dire: per ora non occorre sottoporre obbligatoriamente a valutazione di impatto ambientale l’attività di fracking. Ogni Stato membro faccia pure quel che vuole.

Eppure Zanoni sostiene che il Parlamento europeo “ha agito nel solo ed esclusivo interesse dei 500 milioni di europei, della loro salute e dell’ambiente in cui vivono”. Che dire? Se ci crede lui.

domenica 9 marzo 2014

Una nuova risoluzione sulle attività petrolifere in terraferma ovvero come illudere i cittadini

Il 6 marzo scorso è stata presentata una risoluzione in Commissione ambiente (n. 7-00291) a firma di alcuni deputati del PD (Mariastella Bianchi, Famiglietti, Braga, Borghi, Bratti, Paris, Manfredi, Gadda, Mariani, Ginoble, Arlotti), con cui si vorrebbe impegnare il Governo ad adottare tutte le iniziative necessarie: 1) “ad una revisione del sistema delle autorizzazioni delle attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi sulla terraferma prevedendo un coinvolgimento maggiore del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e degli enti locali competenti anche redigendo griglie di valutazioni, in grado di recepire, oggettivamente, i punti di criticità, come quelli in premessa esposti, la cui valutazione o recepimento, al momento, sono totalmente delegati al valore ad essi riconosciuto dai richiedenti concessione, nelle proprie «Valutazioni di incidenza», subordinando, in ogni caso, il rilascio delle prescritte autorizzazioni alla preventiva realizzazione a cura e spese dei soggetti richiedenti di idonei sistemi di analisi, controllo e monitoraggio dell'impatto ambientale e sanitario delle attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi”; 2) “a prevedere precise modalità volte ad ottenere un maggiore coinvolgimento degli enti locali e delle popolazioni interessate dai progetti di ricerca garantendo in particolare il rispetto di tutti gli obblighi derivanti dalla convenzione di Århus a tutela del fondamentale diritto di dei cittadini di essere informati e di partecipare a tutte le fasi dei processi decisionali in materia ambientale”; 3) “a prevedere modalità precise di recepimento oggettivo delle osservazioni, degli enti locali, sui progetti che riguardano i propri territori ed i livelli di invasività di azioni esterne, sui modelli di sviluppo che i territori hanno scelto di intraprendere all'interno delle auspicate logiche di sviluppo sostenibile”.
I deputati che hanno sottoscritto il testo della risoluzione – che, con l’eccezione dell’on. Bianchi, non erano presenti quando ho svolto l’audizione presso le Commissioni riunite VIII e X e che evidentemente non hanno neppure letto la relazione che ho fatto pervenire loro – mostrano di non conoscere a fondo la normativa vigente in materia. Essi, infatti, chiedono al Governo di attivarsi affinché gli Enti locali siano MAGGIORMENTE COINVOLTI nei procedimenti per il rilascio dei titoli minerari, quando, invece, la legge n. 99 del 2009 non consente ALCUNA partecipazione degli Enti locali, tranne che per l’autorizzazione alla perforazione del pozzo esplorativo. Infatti, i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione sono rilasciati dallo STATO con la partecipazione delle sole REGIONI interessate. Proprio per questo, con il ricorso presentato al TAR Lazio avverso il permesso di ricerca in terraferma “Colle dei nidi” abbiamo sollevato la questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata partecipazione ai procedimenti autorizzatori dei Comuni (visto che stiamo parlando di funzioni amministrative). Al di là di ciò, c’è comunque da chiedersi perché mai i deputati del PD, anziché perdere tempo con gli atti di indirizzo, non si attivino per: 1) presentare un progetto di legge che ridisegni in modo organico e sistematico la materia (lo potrebbe fare direttamente anche il Governo Renzi); 2) convincere il Governo Renzi ad intervenire con decreto-legge se – come sembra dedursi dal testo della risoluzione (ove si discorre dei rischi di dette attività per le falde acquifere, ecc.) – si ritiene che vi sia assoluta necessità e urgenza di intervenire sul problema. Del resto, per lo “sblocco” delle attività petrolifere in mare lo si è fatto (decreto-sviluppo 2012), consentendo, così, che taluni procedimenti (come quello relativo ad “Ombrina mare” in Abruzzo) fossero riattivati.

ENZO DI SALVATORE