lunedì 30 giugno 2014

Alcune osservazioni sulla proposta di referendum sul pareggio di bilancio

A)

L’art. 75, comma II, Cost. stabilisce che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Il primo motivo di inammissibilità potrebbe riguardare il fatto che la legge n. 243/2012 è, appunto, una legge in materia di bilancio. Entro questa categoria, sottratta al referendum, vanno, infatti, ricomprese tutte le leggi di cui all’art. 81 Cost.: quindi, ad es., non solo la legge di approvazione del bilancio, ma – in ragione della modifica costituzionale introdotta – anche la legge n. 243/2012 (cfr. Corte cost., sent. n. 2 del 1994).
Il secondo motivo di inammissibilità – collegato ad un limite implicito – sarebbe dato dal fatto che la legge n. 243/ 2012 potrebbe essere intesa quale legge a contenuto costituzionalmente vincolato (ossia quale legge che nel suo nucleo normativo contiene l’unica disciplina possibile richiesta dalla Costituzione) ovvero quale legge costituzionalmente obbligatoria (ossia quale legge che, pur rappresentando anch’essa attuazione di una previsione costituzionale, non costituirebbe l’unico modo di attuazione di quella data previsione costituzionale). In quest’ultima evenienza, tra l’altro, sarebbe ancor più evidente il carattere manipolativo della richiesta referendaria (sottoposta a stringenti limiti), atteso che con essa ci si propone di trasformare – nei fatti – il referendum in un indirizzo politico al Legislatore.
Il terzo motivo è quello evocato da Alfonso Gianni, anche se, personalmente, è proprio quello che mi convince meno. Nella sentenza n. 88 del 2014, la Corte ha qualificato la legge n. 243/2012 quale “legge “rinforzata”, in ragione della maggioranza parlamentare richiesta per la sua approvazione” (con la precisazione che “essa ha comunque il rango di legge ordinaria e in quanto tale trova la sua fonte di legittimazione – ed insieme i suoi limiti – nella legge cost. n. 1 del 2012, di cui detta la disciplina attuativa”). A mio parere la legge n. 243/2012 non si configura quale legge “rinforzata” e, dunque, in questo senso “atipica” (secondo l’insegnamento di Vezio Crisafulli, per il quale, in casi siffatti, a identità di forma non vi sarebbe identità di contenuto).
Una legge ordinaria, infatti, può essere considerata “rinforzata” quando, pur essendo approvata con la consueta maggioranza prevista per leggi ordinarie (maggioranza semplice), sia circondata in Costituzione da una serie di condizioni “esterne” al procedimento legislativo: come accade ad es. per le leggi di disciplina dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, che, approvate a maggioranza semplice, devono essere precedute da un’intesa con le relative rappresentanze (art. 8 Cost.). Qui, invece, siamo in presenza: 1) di una legge che deve essere approvata a maggioranza assoluta (quindi il rafforzamento è “interno” al procedimento legislativo); 2) quindi: di una (nuova) legge, il cui contenuto è, in relazione ai principi fondamentali, disciplinato dalla legge costituzionale. D’altra parte, nessuno ha mai sostenuto che la legge costituzionale (art. 138 Cost.) sia una legge ordinaria “rinforzata” solo perché il suo procedimento di approvazione risulti diverso da quello previsto per la legge ordinaria. Ad ogni modo – volendo restare all’orientamento espresso dalla Corte – la qualificazione di tale legge come “rinforzata” finisce per rendere inammissibili anche da questo punto di vista i quesiti referendari. 
  

B)

In relazione al quesito n. 1: la proposta di abrogazione della parola “almeno” sembra superflua, in quanto dalla normativa di risulta non discenderà automaticamente che il principio di equilibrio dei bilanci si consideri rispettato unicamente qualora si assicuri il conseguimento dell’obiettivo a medio termine ovvero se il saldo strutturale risulti esclusivamente pari all’obiettivo a medio termine. Abrogare vuol dire sì disporre diversamente, ma non al punto da ricavare dalla disposizione un significato normativo specifico, quando la stessa disposizione resti passibile di interpretazioni ulteriori.

In relazione al quesito n. 2: la legge n. 243/2012 consente di ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie unicamente per fronteggiare “eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese”. Il problema sarebbe dato dal fatto che il ricorso a questo tipo di indebitamento non sarebbe possibile al di fuori di tale ipotesi; dunque, non qualora si versasse in periodi di grave recessione economica. Il rilievo dei promotori del referendum mi pare in via di principio condivisibile, atteso che lo stesso Fiscal Compact dà una definizione (più ampia) di cosa debba intendersi per “circostanze eccezionali”: “eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure periodi di grave recessione economica ai sensi del patto di stabilità e crescita rivisto, purché la deviazione temporanea della parte contraente interessata non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine”. La proposta dei promotori del referendum è, pertanto, quella di abrogare l’art. 4, comma 4, della legge, ove si dice: “Fatto salvo quanto previsto dall’art. 6, comma 6, non è consentito il ricorso all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie”. Ora, al di là di ogni altra considerazione che potrebbe effettuarsi – visto che la deviazione temporanea non può comunque compromettere la sostenibilità del bilancio a medio termine – mi limito ad osservare che l’abrogazione dell’art. 4, comma 4, della legge non comporta che sia altresì abrogato l’art. 6, comma 6; il raggiungimento dell’obiettivo dei promotori avrebbe, infatti, chiesto che il quesito referendario venisse esteso anche alle parole “straordinari”  e “lettera b)” contenute all’art. 6, comma 6: il che non è avvenuto. 

In relazione al quesito n. 3: l’art. 8, comma 1, della legge n. 243/2012 impegna il governo a verificare se vi sia uno scostamento negativo del saldo strutturale “pari o superiore allo scostamento considerato significativo dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli accordi internazionali in materia”. La proposta dei promotori del referendum è quella di abrogare il riferimento agli accordi internazionali in materia, sul presupposto che né il Fiscal Compact, né l’art. 97, comma 1, Cost. prescrivono una conformità di questo tipo. Faccio presente che: 1) qualora vi fossero già accordi internazionali in materia, l’abrogazione di tale inciso non autorizzerebbe a disattendere gli accordi conclusi, in quanto, se così fosse, si determinerebbe una violazione degli obblighi assunti sul piano internazionale (l’art. 117, comma 1, Cost. richiede, tra l’altro, che la potestà legislativa dello Stato si eserciti (anche) nel rispetto dei vincoli che discendono dagli obblighi internazionali); 2) qualora non vi fossero accordi internazionali in materia, lo Stato potrebbe comunque stringerli in futuro, posto che l’art. 97, comma 1, Cost. afferma che “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”, senza con ciò precisare – come invece sostengono i promotori del referendum – che detta coerenza debba esserci “soltanto” con l’ordinamento dell’Unione europea. Da dove lo hanno dedotto? 

In relazione al quesito n. 4: con esso si propone di abrogare l’art. 3, comma 2, della legge n. 243/2012, ove si prescrive che “L’equilibrio dei bilanci corrisponde all’obiettivo a medio termine”. Secondo i promotori, questa regola non sarebbe imposta né dalla Costituzione, né dal Fiscal Compact. Vero è che l’art. 97, comma 1, Cost. prescrive che le pubbliche amministrazioni assicurino l’equilibrio dei bilanci senza che, dunque, vi sia alcun collegamento con l’obiettivo a medio termine, ma è pur vero che la stessa disposizione costituzionale rinvia a quanto stabilisce in materia l’Unione europea. E da questo punto di vista – sebbene la sua natura giuridica possa essere discussa (un “trattato internazionale di diritto para-europeo”, così lo definiscono i promotori) – il Fiscal Compact prescrive: 1) che “la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo”; 2) che tale regola “si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto; 3) che ogni intervento volto a rendere più flessibile la regola stessa è affidato alla competenza della Commissione europea, che definisce il quadro temporale perché gli Stati assicurino “la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine”, tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. È ad essa, dunque, che spetta valutare globalmente i progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto dello stesso, non certo allo Stato membro.

Per queste ragioni – di legittimità e di merito – ritengo non sia opportuno sostenere i quesiti referendari. Credo, invece, che sia assolutamente urgente promuovere una campagna politica di opposizione alla revisione costituzionale come immaginata dal Governo Renzi, anche al fine di evitare che sia approvata a maggioranza qualificata, in modo da consentire, invece, che sulla stessa possa celebrarsi il referendum costituzionale (art. 138 Cost.). Sarebbe non già una battaglia di retroguardia, ma una battaglia di civiltà.

Enzo Di Salvatore

giovedì 12 giugno 2014

La revisione costituzionale del Governo Renzi: come uccidere la democrazia in Italia

L’epurazione di Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali è solo l’ultimo segnale del modo in cui il Governo intende procedere alla revisione costituzionale: con la tracotanza di chi non ammette critiche e osservazioni, né esterne né interne.
Se è già un’anomalia politica che sia il Governo e non il Parlamento a incaricarsi della revisione costituzionale, è allarmante il fatto che siano già due i senatori sostituiti in Commissione perché pretendevano di discutere il testo che l’Esecutivo intende evidentemente blindare.
Ancor più gravi le reazioni della ministra Boschi e del premier Renzi all’autosospensione di altri 13 senatori seguita all’epurazione di Mauro e Mineo: non si accettano veti e si procederà comunque senza di loro.
Ma in che cosa consistono queste sbandierate RIFORME, presentate dai media come uno scatolone vuoto, e che Renzi continua a garantire ai partner internazionali da quando è diventato premier? Si tratta in buona sostanza, come spieghiamo nel testo che segue, di un depotenziamento delle Regioni e del Senato a vantaggio del Governo, o meglio dell’attuale “governo del fare”; un vero “cavallo di Troia” per consentire i tanto invocati “investimenti stranieri”, ossia la realizzazione in Italia di progetti che minacciano i nostri territori, a cominciare da quelli petroliferi, su cui negli ultimi tempi è partita un’offensiva mediatica, e impedire che i territori possano avere voce sulla realizzazione di “infrastrutture strategiche”, denominazione sotto la quale si potranno far rientrare dalla finestra progetti di “grandi opere” che enti territoriali e cittadini hanno cacciato dalla porta.

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Il disegno di legge di revisione della Costituzione  presentato dal Governo Renzi interviene su due questioni principali: il bicameralismo e l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni.
Quello che il Governo si propone di fare è privare la Seconda Camera della possibilità di accordare e revocare la fiducia al Governo, nonché di votare il bilancio dello Stato, e concentrare, essenzialmente, l’attività legislativa nelle mani della sola Camera dei deputati, posto che in futuro il Senato potrà proporre sì modifiche ai progetti di legge, ma la Camera dei deputati potrà sempre non conformarsi ai suggerimenti da esso elaborati.
Evocare un ruolo di garanzia e controllo per la Seconda Camera – come auspica Stefano Rodotà – al fine di scongiurare che il Senato sia “condannato all’irrilevanza” – evidentemente non basta. La riforma della Seconda Camera e la riforma del Titolo V della Costituzione sono, infatti, tra loro strettamente collegate: alla perdita di competenza che le Regioni subirebbero non si individua alcun serio rimedio, atteso che una loro effettiva partecipazione alla legislazione dello Stato in seno al Senato sarebbe di ben poco rilievo.
In questa prospettiva, inaccettabile è, allora, la riforma dell’assetto delle competenze legislative proposto dal Governo, in quanto essa andrebbe in ogni caso a vantaggio dello Stato, decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni culturali e paesaggistici, delle norme generali sulle attività culturali, del turismo, della produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia, delle norme generali sul governo del territorio, delle infrastrutture strategiche, solo per fornire alcuni esempi.
La ragione che si intravede dietro la proposta avanzata è quella di impedire che le Regioni possano legiferare su tali materie. Con buona pace di talune garanzie che la Corte costituzionale aveva individuato proprio in favore delle autonomie territoriali.
Basti pensare alla materia energetica.
Sebbene la riforma costituzionale del 2001 abbia attribuito l’energia alla competenza concorrente dello Stato e della Regione, la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa sì disciplinare per intero la materia in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento dell’intesa. L’intesa della Regione, infatti, si configura come una sorta di compensazione per la “perdita” di competenza dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Con il disegno di legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece, meno. In questo modo, i progetti energetici potrebbero non richiedere più l’assenso della Regione. Si pensi alla miriade di progetti petroliferi che il Governo ha in serbo di realizzare in Basilicata, in Abruzzo o in Campania: in questi e in altri casi lo Stato farà sicuramente da sé.
A ciò si aggiunga che il disegno di legge licenziato dal Governo stabilisce che persino sulle materie lasciate alla competenza delle Regioni lo Stato possa intervenire in ogni tempo, quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o la tutela dell’unità economica della Repubblica o la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale. In questo modo, nessuna delle materie di competenza regionale resterà immune dall’intervento statale.
Quello che, in verità, il Governo si propone di fare è depotenziare il ruolo che le autonomie territoriali godono entro il sistema costituzionale della Repubblica. E certamente non già perché – come ha affermato il Presidente Renzi – sia “cambiato il clima nei confronti delle Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché  l’attività delle Regioni – intese come “macro Stati che pensano di poter governare tutto” (parole dello stesso Renzi) – sarebbe d’intralcio all’operato del “governo del fare”.
Proposito, questo, reso ancor più grave dal fatto che – come si apprende in questi giorni dai quotidiani – il Governo sarebbe alla spasmodica ricerca di una convergenza sul testo da parte delle forze politiche di opposizione, al fine di evitare che sulla revisione deliberata possa poi richiedersi il referendum costituzionale.
Il livello della discussione pubblica è sconfortante: nessuno sembra chiedersi più come mai la nostra Costituzione ha inteso informare la struttura della Repubblica al principio del decentramento politico-istituzionale. Noi lo vorremmo ricordare con le parole che Carlo Esposito – esimio Maestro del diritto costituzionale – ebbe a pronunciare nel lontano 1954: “la coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce, nella nostra Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un utile strumento di buona legislazione ed amministrazione”. Essi “incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato” e costituiscono “per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà”.


Anna Lucia Bonanni, Enzo Di Salvatore, Domenico Finiguerra, Domenico Gattuso, Roberto Mancini, Ivano Marescotti, Teresa Masciopinto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Gigi Richetto

martedì 10 giugno 2014

MEDOIL VENDE (FORSE) OMBRINA A SE STESSA MENTRE C'E' ANCORA CHI ASPETTA E SPERA, CONFIDANDO IN D'ALFONSO E NEL PD

I comunicati e le relazioni di Medoilgas spiegano ben poco soprattutto a chi, come noi, non ha frequentazioni nella City londinese e spiegano ancor meno ai media generalisti.
La notizia pubblicata la scorsa settimana con grande enfasi su quotidiani e siti web: il 23 maggio scorso i boards delle compagnie Rockhopper (RKH) e Mediterranean Oil & Gas plc (MOG) annunciano di aver aggiunto un accordo sui termini di acquisizione di MOG da parte di RKH al prezzo di £ 29.300.000. MOG porta in dote ad RKH £ 10.000.000 che MOG ha in cassa.
In apparenza tutto sembrerebbe filare a meraviglia ma … i piccoli investitori si chiedono un po’ frastornati: "Chi ci guadagna in questa operazione? E’ stato un buon affare?"
Sembra voler rispondere loro Keith Henry di MOG: "Questo è un buon affare per i nostri azionisti in quanto offre loro la combinazione di contanti ed azioni …. Prevedendo anche la possibilità di beneficiare del potenziale di apprezzamento legato alla nostra concessione di Malta. Purtroppo, una serie di battute d'arresto lo scorso anno con Guendalina, principale attività della produzione di MOG, ed i continui ritardi normativi per Ombrina Mare … ci hanno impedito di attuare una strategia di crescita del nostro portafoglio nel Mediterraneo. Nelle attuali condizioni di mercato, il board di MOG crede fermamente che questo obiettivo possa essere raggiunto solo da una società significativamente più capitalizzata …".
Vero è che MOG, sfiancata per Guendalina ed Ombrina, era in debito di ossigeno con "appena" 10 milioni di sterline in cassa ma ancor più vero è che avrebbe potuto attendere ancora un po’ per vendere, giusto il tempo di vedere sbocciare i suoi progetti maltesi per il cui sviluppo 10 milioni di sterline sarebbero stati sufficienti. Così dicono fonti ben informate.
Secondo alcuni, infatti, il prezzo della cessione sarebbe stato così basso a tal punto da non ripagare degli investimenti fatti anche la maggior parte dei componenti del Consiglio di amministrazione di MOG.
MOG avrebbe potuto vendere ad un prezzo più alto e invece … Perché tanta fretta? Perché anticipare di due mesi il giudizio sfavorevole del TAR Lazio su Ombrina andando a siglare, secondo alcuni, un accordo di riservatezza con la RKH nello scorso mese di febbraio?
Chi ha risposte da dare risponda.
Ripercorrendo l'evolversi di numerosi casi simili, viene da chiedersi se MOG si sia venduta a se stessa e se l'operazione sia stata pilotata dai gruppi finanziari che ne detengono il controllo; ad esempio, dal Gruppo di investimento americano Och-Ziff, uno dei più grandi al mondo, con beni gestiti per oltre 33 miliardi di dollari, che detiene il 28,18% di MOG ed il 3,26 di RKH. Cambia il vestito ma non il monaco.
Inoltre, rileggendo le varie tappe della storia italiana di MOG, prima Intergas Più ed ancor prima Gas della Concordia Spa, si ha la netta sensazione di assistere alla replica di un film rimasterizzato, visto e rivisto.
Una delle puntate più celebri di questa infinita serie televisiva fu perfino oggetto, nel 2008, di un'interrogazione presentata alla Camera da Elisabetta Zamparutti che snocciolò fatti sconcertanti, culminati con il passaggio della proprietà del pozzo "Monte Grosso 2" dalla Intergas Più, controllata della Concordia Spa (poi Coopgas), proprio a Medoilgas.
Quella importante operazione finanziaria, che per la parte lucana relativa al pozzo "Monte Grosso 2", trovò una sponda nella Giunta di centrosinistra della Regione Basilicata, in realtà interessò anche altre regioni, Abruzzo compreso.
Nel bel mezzo dell'accordo siglato tra Intergas Più e Medoil finì anche il permesso di ricerca B.R269GC, noto ai più come "Ombrina". Come "Monte Grosso 2", Ombrina passò dalla Gas della Concordia S.p.a. (titolo conferito con D.M. 5 maggio 2005) alla controllata "Intergas Più" il 28 luglio 2005. Da Intergas Più, Ombrina finì poi nel "paniere" di MOG l'11 marzo 2008 assieme a numerosi altri titoli minerari abruzzesi, lucani, marchigiani, molisani, pugliesi, emiliano-romagnoli, ecc.; in particolare:
- permessi di ricerca: Guardia Vomano, Settecerri e Sulmona in Abruzzo); Serra San Bernardo, Masseria Gaudella e Torrente La Vella in Basilicata; Agugliano e Montemarciano nelle Marche), e A.R81.FR (Alto Adriatico tra Pola e Porto Tolle);
- concessioni di coltivazione: Castel Di Lama nelle Marche; Masseria Grotta Vecchia, Masseria Petrilli, Torrente Celone, Masseria Acquasalsa e Lucera in Puglia; Misano Adriatico, Monteardone e Fornovo di Taro, in Emilia Romagna; Monte Verdese, Scanzano e San Teodoro, in Basilicata; S. Andrea in Veneto e Friuli Venezia Giulia; Torrente Cigno in Molise; San Basile e San Mauro in Abruzzo; infine A.C19.PI, nell'Alto Adriatico, a largo di Porto Tolle.
Ma vi sono anche altre analogie tra "Monte Grosso 2", in Basilicata, ed i titoli minerari abruzzesi: il pozzo esplorativo "Monte Grosso 2" ottenne il via libera dalla Giunta Regionale della Basilicata (Presidente Di Filippo, centrosinistra) il 5 novembre 2007; i titoli abruzzesi on shore Sulmona (petrolio!!) e Vomano (gas) vennero conferiti dopo il rilascio dell'Intesa da parte della Regione Abruzzo, avvenuto rispettivamente il 21 settembre 2006 ed il 14 marzo 2005. La Giunta Regionale era quella presieduta da Ottaviano Del Turco, strenuo difensore del progetto del Centro Oli di Ortona.
Se in Basilicata, già nel 2008, furono in diversi ad indicare nelle Coop ed in Unipol due tra i principali protagonisti del "giro" del petrolio lucano, altrove (Abruzzo compreso) ancora oggi si stenta ad inquadrare l'inizio del processo di involuzione petrolifera di quelle regioni in un più ampio contesto nazionale. Limite non da poco soprattutto per chi vorrebbe contrastare le compagnie petrolifere che, come noto, equiparano Stati e regioni a pure espressioni geografiche.
Per tutte le ragioni storiche fin qui spiegate, riteniamo che sperare e confidare nel neo-eletto Presidente della Regione Abruzzo, al tempo favorevole, con Del Turco, alla realizzazione del Centro Oli di Ortona, perché batta i pugni sul tavolo del Premier Renzi o sistemi non si sa cosa nell'Italia futura prossima del Titolo V della Costituzione riformato e a guida egemone PD, sia cosa vana ed inconsistente rispetto alla dura pietra di cui è fatto quel gruppo di potere che in Abruzzo, come anche in Basilicata, ha "inventato" la Strategia Energetica Nazionale diversi anni prima che questa vedesse la luce nel marzo del 2013.
Quel gruppo di potere, a dispetto del tempo trascorso e della marcia dei 40.000 a Pescara, è ancora lì, pressoché inamovibile, più coeso di prima.


Coordinamento Nazionale NO TRIV