CAFFE' E...LIBRI

Ernst Jünger e la questione dello Stato mondiale

1. Ci sono libri, come quello di Ernst Jünger (Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione, trad. it. Parma, 1998), che sanno sorprendere, disorientare il lettore: il problema non è decidere da che parte stare, ma sapere dove andare. Più ragioni portano allo smarrimento: uno stile compatto e senza fenditure, che non dà modo al pensiero di incunearsi; un linguaggio rapsodico, che, con largo uso di figure retoriche, tende più ad affermare che ad argomentare. A suggerire più che ad enunciare. Cosicché, se talvolta si resta meravigliati per le scarne espressioni utilizzate, talaltra ci si turba per il non detto. Per un taciuto che frequentemente diviene ambiguità e che già solo per questo parrebbe assicurare al suo autore l’immortalità della propria idea. Eppure sarebbe ingeneroso fermarsi qui. Il più delle volte il non-pensiero apre, infatti, alla visione, ad una penetrante e fruttuosa immaginazione, che ci porta a dire quel che di Shakespeare già pensava Montale: e cioè che in Jünger “un albero è veramente sufficiente a creare una foresta”.
Nel suo libro, Ernst Jünger scrive che lo Stato, in quanto status, “corrisponde strettamente allo stare o al suo sussistere”. Questa affermazione non deve trarre in inganno. Jünger non è un giurista e con il suo saggio vuol porre in luce l’aspetto più propriamente fenomenologico dello Stato: il suo volto vivo, che, al di là di ogni lettura deterministica dello storia, ha da sempre tratto alimento dalla libertà. Nello Stato – assicura Jünger – si riassume tutta la potenza dell’uomo; in esso confluiscono le sue forze. A conferma di ciò starebbero le statue erette “nell’agorà, nel foro, nelle grandi piazze rinascimentali e barocche”; così come taluni simboli del dominio, quali la corona e lo scettro. E persino l’inno o la bandiera, che, sebbene con altri presupposti, nella dottrina integrazionista di Rudolf Smend già tendevano all’inclusione in funzione della conservazione.
Da tempo, tuttavia, le forze dell’uomo si sono indebolite e non fondano più la storia. L’uomo è in movimento ed anche lo Stato lo è: questo vive di grandi spazi e si fa smisurato. È chiaro che in un mondo “che si muove accelerando” non vi sono statue da erigere; ed anche i simboli non esprimono più staticità, ma dinamicità. “Sono le punte lanciate nel moto più veloce e potente” – dichiara Jünger. “Sono i veicoli spaziali e quella punta estrema raggiunta dal mondo che va costituendosi”.
Qui – è bene precisarlo – il movimento non è elemento di un’organizzazione politica a fondamento tripartito (C. Schmitt). Esso non può esserlo perché si sottrae al libero volere e al rapporto di causalità, che connette i fatti storici tra loro. Quel che conta – e che solo lascia intravvedere il movimento e la sua corsa verso lo Stato mondiale – è l’azione finale. Ciò che porta lo scrittore a dire che il presente non è da intendere quale conseguenza (di quel che è stato), ma “quale segno premonitore di qualcosa che sta per sopraggiungere”; e che, però, travolge tutto: i concetti storici così come il diritto. Per questo gli è agevole anche affermare che “la conoscenza storica non dispone più degli strumenti per darne conto”.

2. La tesi che a Jünger preme sostenere (e che, in realtà, corrisponde ad una sua non troppo remota anarchica speranza) è che nello Stato mondiale si realizzerà l’emancipazione dell’organismo dall’organizzazione.
L’uomo ha nutrito da sempre una certa diffidenza nei confronti dello Stato. Il singolo e la comunità (cui il singolo naturalmente appartiene) sono esposti alla potenza dello Stato e ne subiscono costantemente la minaccia. Jünger concepisce la società come organismo (naturale) e contrappone ad essa l’organizzazione. Al pari di quanto accade in altre specie viventi, anche nella specie umana se si fa più stringente l’organizzazione aumenta la sicurezza, ma diminuisce la libertà: “se tra gli insetti sociali l’ordinamento e la divisione del lavoro dà incremento all’economia in misura tale da rendere possibile l’accumulo di scorte di cibo, tale ricchezza è acquisita al prezzo di sorprendenti sacrifici”.
Il parallelo tracciato da Jünger si arresta, tuttavia, qui, in quanto “man mano che si sale a livelli più evoluti nel regno animale, la costruzione degli Stati sembra farsi più rara”.
Nella loro struttura elementare – afferma ancora l’esimio scrittore – l’organizzazione può dirsi connessa con la vita; non primariamente, bensì nei limiti in cui essa agisce spontaneamente sullo status biologico degli esseri viventi: “se questa tendenza si chiama volare o nuotare, compaiono ali e pinne, oppure queste vengono trasformate in modo geniale, nel senso che le ali diventano pinne, come negli alcidi o nei pinguini, o le pinne diventano ali, come nei pesci volanti”.
Ebbene, nella specie umana, il cui proprium è la libertà del volere, l’organizzazione appare un fatto artificiale, che giustifica la resistenza biologica. Spesso inutilmente. Una prospettiva più darwinistica che organicistica dello Stato, come si vede; che porta Jünger a chiedersi se il toro chieda davvero l’aratro e se il popolo voglia davvero lo Stato: “chi vuole esercitare un dominio deve certamente pensarla così, ma nell’universo si può osservare in maniera altrettanto evidente una tendenza a sottrarsi a tale dominio”. Eppure Jünger è convinto che la nascita dello Stato mondiale decreterà la morte dello Stato “storico”; e che in esso l’uomo ritroverà la sua purezza primordiale, la sua libertà. Una libertà che è assenza del padre; realizzazione di un’antica e illibata determinazione; cessazione delle ostilità, che rende vano il passaggio dell’uomo al bosco (Waldgang). In questo senso, lo Stato mondiale realizzerebbe una nuova qualità, più che un’estensione territoriale della sua organizzazione: “quando lo Stato era un’eccezione, quando era insulare, o unico nel senso dell’origine, gli eserciti combattenti erano superflui, stavano al di fuori dell’immaginazione. La stessa situazione deve presentarsi dove lo Stato diventa unico in senso finale. Allora l’organismo dell’uomo, nel senso di ciò che è autenticamente umano, potrà manifestarsi nella sua purezza, libero dalla costrizione dell’organizzazione”.

3. Nel suo celebre Principii di diritto costituzionale generale, Santi Romano definisce lo Stato una “istituzione”: un’unità “ferma e permanente”, che “assorbe gli elementi che ne fanno parte e che è superiore e preordinata così agli elementi stessi come alle loro relazioni, in modo che non perde la sua identità, almeno sempre e necessariamente, per singole mutazioni di tali elementi”.
Lo Stato, come si vede, è per il giurista un’organizzazione di tipo statico; dinamico è il suo ordinamento giuridico. Diversamente da Jünger, il giurista è tradizionalmente incline ad analizzare non l’aspetto fenomenologico dello Stato, ma i caratteri del suo “stare”, del suo “sussistere”. Un mutamento dei principi di struttura che caratterizzano lo Stato, e che ne connotano storicamente la sua forma, non sembra minare questo presupposto. Allo stesso modo, un mutamento degli elementi costitutivi dello Stato (l’ampliamento o la riduzione del territorio e del popolo dello Stato, così come la condivisione della propria potestà di imperio con organizzazioni internazionali o europee) non pare incidere sulla sua sovranità. Quanto, però, questa premessa sia perfettamente coerente con lo Stato mondiale di Jünger è difficile da dire, atteso che un’idea siffatta non contraddirebbe a valle soltanto il mantenimento del diritto internazionale, ma smentirebbe a monte la stessa possibilità di predicare l’esistenza dello Stato. Se si esce dalla prospettiva che anni orsono la dottrina pura del diritto ha ritenuto di dover abbracciare, questa idea, infatti, urta immediatamente contro l’insegnamento impartito dalla dottrina classica dello Stato ovvero contro taluni punti fermi da essa fissati negli studi dedicati al tema (G. Jellinek).
In via del tutto ipotetica, invero, nulla impedirebbe che i c.d. elementi costitutivi dello Stato si confacciano ad uno Stato che voglia dirsi autenticamente mondiale: non certo quello territoriale (Staatsgebiet), in quanto, in questo caso, esso finirebbe con il coincidere con l’intera superficie del pianeta, e nemmeno quelli di imperio (Staatsgewalt) e di popolo (Staatsvolk), posto che ben potrebbe la potestà di governo essere esercitata nei confronti dell’umanità intera, intesa quale soggetto unitario di diritti e di doveri. Una prospettiva siffatta trascurerebbe, invece, un dato fondamentale, e cioè che i tradizionali elementi costitutivi dello Stato non esprimano affatto un significato di natura solo formale, collegandosi essi ad un concetto storico-giuridico non facilmente obliterabile: quello di nazionalità. Ciò a prescindere, si intende, dalla forma di Stato storicamente affermatasi, giacché, sebbene la classificazione tipologica dello Stato costituisca una mera convenzione scientifica, resta incontrovertibile che il concetto di nazionalità – trasfiguratosi ora nella sovranità del Monarca, ora in quella del popolo – rappresenti un fattore ineliminabile per aversi uno Stato.

4. Secondo Jünger, alla comparsa dello Stato mondiale corrisponderà la scomparsa dello Stato “storico”, in modo tale che “la conoscenza storica non (disporrà) più degli strumenti per darne conto”. Questa affermazione risulta, invero, del tutto ambigua; ed intesa alla lettera si pone in evidente frattura con l’insegnamento kantiano, teso, com’è noto, a mantenere distinto il piano delle categorie da quello dei concetti empirici.
Per Kant, com’è noto, le categorie si configurano quali concetti puri dell’intelletto, che soli renderebbero possibili i giudizi di esperienza. Ogni categoria esprimerebbe una necessità assoluta del processo epistemologico, e cioè si legherebbe per definizione alla percezione che si ha del fenomeno, prescindendo dalla possibilità della sua dimostrazione empirica. Stando alle parole di Jünger, invece, l’impossibilità della dimostrazione empirica – determinata dal nuovo che sopraggiunge – priverebbe l’interprete della stessa possibilità di utilizzare gli strumenti conoscitivi. Questa impostazione è non solo ambigua, ma – a questo punto – anche poco condivisibile.
Nel campo proprio della scienza giuridica il problema è stato affrontato, tra gli altri, da R. Stammler e J. Binder, sebbene un contributo decisivo alla sua risoluzione sia stato fornito da H. Kelsen, il quale ha efficacemente dimostrato come l’interpretazione del sistema normativo non muova affatto dal rapporto di causalità, ma dal principio di imputazione.
Su queste basi, è possibile sostenere che l’analisi storico-giuridica dello Stato – di ogni Stato – non è da svolgere in modo retrospettivo, e cioè considerando le condizioni storiche che hanno reso possibile la sua concreta formazione, bensì – una volta che si ammetta una rottura della continuità dell’ordinamento giuridico – sulla scorta di quel che stabilirà il nuovo sistema normativo. E poco importa se non vi sarà alcuna razionalizzazione del diritto dello Stato, se esso, cioè, vivrà di inediti costumi e di sconosciuti poteri: il diritto non è mai forza bruta, né magia. E però – diversamente da quel che vorrebbe Jünger – neppure anarchia.
Ragione per cui, se si prescinde dalle considerazioni critiche svolte più sopra, deve qui riconoscersi che, una volta che si postuli un ritorno alla purezza primordiale dell’organismo e si neghi, con ciò, la possibilità stessa del diritto, lo Stato mondiale semplicemente non è, non esiste.

ENZO DI SALVATORE




Potere e giustizia nell’opera di Gabriel García Márquez

1. Se si ritiene che il potere vada studiato analizzando “le forme regolate e legittime nel loro centro, in quelli che possono essere i loro meccanismi generali ed i loro effetti costanti” (M. Foucault), deve anche convenirsi che l’opera letteraria di Márquez resti in via di principio estranea ad ogni rappresentazione del potere. Se si ammette, al contrario, che il potere debba essere spiegato nella sua dimensione ascendente, “a partire dalle tecniche e dalle tattiche della dominazione”, e cioè osservando come esso circoli a prescindere dalle “produzioni ideologiche” (M. Foucault), allora può anche concludersi che l’intera opera di Márquez altro non sia che un’unica e incessante riflessione sul potere; la cui altilenante “credenza nella legittimità” appare in condizione di aprire alla coesistenza di due differenti e spesso confliggenti modelli: quello tradizionale e quello carismatico (M. Weber).
L’ambiguità delle convinzioni dell’obbediente, che si riflette nei meccanismi e nella coesistenza dei tipi di potere, è un habitus mentale ed è figlia dell’impossibilità di conciliare la solidarietà con la solitudine: “la solitudine” – afferma Márquez – “si presenta come l’opposto della solidarietà … e questo è il punto che acquista già quasi un carattere politico e che perciò trovo interessante”. Si tratta di una solitudine “collettiva” e non “metafisica”, “lirica” e “individuale”, “la quale tuttavia proprio per il fatto di essere tale, marca l’individuo uno per uno” (G. G. Márquez). Essa è “inabilità associativa, indifferenza e indolenza”; dappocaggine e inettitudine; distorsione della realtà e fuga (C. Segre).
Se sul piano più propriamente politico l’assenza di solidarietà tronca qualsiasi “possibilità di sviluppo” della storia e favorisce “l’azione degli sfruttatori prima, degli imperialisti e dei dittatori locali dopo” (C. Segre), è pur vero che, involontariamente e inconsapevolmente, è proprio il tratto anarchico di ogni solitudine a soggiogare e piegare il potere, condannandolo per sempre ad una funesta dimenticanza. È quel che accade ad esempio ne La mala ora, ove il potere dell’alcade, inviato a Macondo con “l’ordine di sottomettere il paese ad ogni costo”, si infrange contro il mistero delle pasquinate: ogni mattina contro i muri del paese vengono affissi manifestini, che svelano i retroscena più vergognosi della vita privata degli abitanti. Si tratta di avvenimenti già largamente noti, certo; ma le pubbliche accuse gridate acuiscono giorno per giorno il dramma e disorientano l’autorità, fiaccandone il potere. “Voglio che tu tiri le carte” – chiede l’alcade a Cassandra – “per vedere se si può sapere chi combina tutto questo casino”. E Cassandra, confessando d’aver già interrogato il passato, rivela: “È tutto il paese e nessuno”. Così, in un pomeriggio qualunque, “inconsapevole della invisibile ragnatela che il tempo gli stava tessendo tutt’attorno”, all’alcade sarebbe stata sufficiente “un’istantanea esplosione di chiaroveggenza” per comprendere “chi fosse il sottomesso e chi il soggiogatore”; di comprendere, cioè, che la verità del potere sta, in fondo, nella possibilità che esso si faccia comunicazione. Il verbo potere – si potrebbe dire parafrasando Roland Barthes – “non esiste all’infinito (se non per artifizio metalinguistico): il soggetto e l’oggetto formano un tutt’unico con la parola che viene proferita”. Nel dialogo che sorregge il rapporto autorità-libertà il dominante “finge d’ignorare il fondamento d’essere e di comunicazione che sostiene la sua disperazione e il suo orgoglio”: egli “vuole essere solo per sé, ma, di fatto, cerca d’essere riconosciuto signore da qualcuno” (M. Merleau-Ponty). E il potere, allora, muore di fronte alla negazione della possibilità di tale riconoscimento e non sempre nell’urto con la negazione del riconoscimento stesso ovvero quando se ne ponga in discussione la legittimità dell’esercizio: “è il mio linguaggio, ultimo appiglio della mia esistenza, che viene negato, non la mia domanda”; per la domanda, posso aspettare, rinnovarla, formularla in altro modo; ma, se vengo privato del potere di domandare, io sono come morto per sempre” (R. Barthes).

2. La solitudine collettiva è fondamento e limite del potere politico. Nei Paesi dell’America latina, alla liberazione dal dominio spagnolo e portoghese corrispose l’ascesa al potere dei caudillos, di avventurieri ambiziosi “che con magniloquenza andavano proclamando princìpi democratici” (R. M. McIver). La maggior parte della popolazione era vissuta fino ad allora in una specie di “feudalesimo arretrato”, in quanto le condizioni economiche erano sfavorevoli, l’analfabetismo dilagante e il ceto medio del tutto inesistente. Essa, in breve, non aveva alcuna “filosofia di vita” da contrapporre alla “tradizione autoritaria” pregressa. I caudillos, d’altra parte, erano per lo più “generali di eserciti «rivoluzionari», uomini usciti dalla classe latifondista, senza alcuna idea dei metodi democratici” (R. M. McIver), facilmente inclini a smarrire il senso della propria “missione” e a trasformarsi in “opportunisti”. Tale stato di cose finì per creare uno spazio incolmabile tra la sfera della libertà e quella dell’autorità. Un divario che consentì al dittatore di esercitare retrivamente il proprio potere allo scopo di “ammassare ricchezze” (R. M. McIver); che emarginò il popolo dalla scena politica, gettando il Paese in un nuovo e terribile feudalesimo; che favorì l’impossibilità della comunicazione e l’incomprensione del sociale; e che alla lunga rese persino effimero e solo il potere.
Non è un caso che sia proprio la solitudine del potere ad attraversare in filigrana le vicende narrate da Márquez. Quella solitudine che lambisce i ricordi del colonnello, il quale, dopo aver preso parte alla guerra civile compiendo imprese memorabili, attende ora inutilmente l’arrivo della pensione, consumandosi lentamente nella speranza che il suo gallo vinca la battaglia; che guida tristemente Simón Bolívar nel suo ultimo viaggio lungo il fiume Magdalena, e che lo fa rabbrividire di fronte alla inattesa rivelazione “che la folle corsa fra i suoi mali e i suoi sogni arrivava in quel momento alla meta finale”; che veglia ancora sulle giornate del dittatore centenario, il quale, chiuso in un palazzo immenso e triste e pieno di vacche, si sente ora “oltraggiato e sminuito dall’inclemenza della morte di fronte alla maestà del potere”.

3. Se si sostiene che l’opera di Márquez si lasci agevolmente imprigionare entro la corrente letteraria del c.d. “realismo magico”, deve anche ammettersi che sia assolutamente paradossale tentare di rinvenire in essa una data concezione della giustizia e che sia finanche superfluo interrogarsi sulle specifiche connessioni che questa presenti con le forme di esercizio del potere. È
evidente, infatti, che se i romanzi e i racconti di Márquez costituissero solo un’opera di falsificazione della realtà, anche la giustizia si configurerebbe solo come un accidente della storia narrata o, nei migliori dei casi, come un fatto incosciente e strumentale alla illustrazione dei personaggi e dei luoghi descritti. Come ha ricordato lo stesso Márquez, però, tutte le sue opere “corrispondono a una realtà geografica e storica”, che “non hanno a che fare con il realismo magico e tutte le cose che si sono dette”. In tale contesto, il problema della giustizia e del potere trascina con sé anzitutto quello del metodo ossia delle strategie euristiche utilizzabili nell’indagine, e la cui validità si appoggia su un’elementare considerazione: l’America latina non è l’Europa. La sua realtà quotidiana “è piena di cose straordinarie” e, “a differenza di ciò che pensano gli europei, (essa) «non si esaurisce nel prezzo dei pomodori o delle uova»”. “L’immagine di un mondo selvaggio e innocente”, che le rivoluzioni degli uomini hanno trasformato, ossia guarito o distrutto per sempre, è un’idea tutta occidentale (B. Arpaia); una verità accettabile solo postulando il “principio della serie temporale secondo la legge della causalità” (I. Kant) e plausibile solo aderendo ad un processo dimostrativo, che, facendo leva sull’intuizione chiara ed evidente delle cose, sulla composizione analitica e sulla ricostruzione sintetica, intenda “far tabula rasa del passato” (G. De Ruggiero). Per tale ragione, in Márquez la giustizia e il potere si presentano come fenomeni reali, ma non del tutto razionalizzabili; fatti persino semplici eppure non completamente decifrabili. E l’impossibilità di razionalizzare e decifrare i fenomeni rende anche sterile la lezione illuminista. Inutile la distinzione tra pubblico e privato. Superfluo ogni sforzo volto a separare il terreno dal divino e goffo ogni tentativo che voglia dimostrare come tra il dialogo dei vivi con i morti e dei morti con Dio possa esservi soluzione di continuità. Tutto questo, infine, giustifica una rappresentazione degli eventi che dà respiro alla simultaneità dei punti di vista e che predilige il ricorso ad un tipo di scrittura, la quale, scomponendo e ricomponendo la narrazione, insiste prepotentemente sull’iperbole, sull’analessi, sullo slittamento temporale (C. Segre).

4. Si è sottolineato come nei romanzi di Márquez “gli eventi non sono mai rappresentati con pretese di oggettività, ma anzi accettando senza riserve le amplificazioni e le stilizzazioni di chi in essi è implicato o ad essi è interessato” (C. Segre). In Cronaca di una morte annunciata, lo scrittore prende senz’altro nota degli accadimenti; registra quanto i protagonisti hanno da raccontare; acconsente a che tutte le voci interagiscano tra loro. Ciò nonostante, però, nel lasciar emergere lentamente ogni singola verità, egli finisce per puntare il dito contro qualcosa di preciso. Santiago Nasar è accusato di aver deflorato Ángela Vicario, promessa sposa a Bayardo San Román. I fratelli di Ángela si preparano alla vendetta, attendono Santiago Nasar nella piazza principale del paese e sotto gli occhi della popolazione attonita e inerme consumano il delitto.
Ebbene, se la storia è scontata, altrettanto non può dirsi del senso ultimo di rinuncia e di desolazione che dalle sue pieghe traspare. Sul banco degli imputati non siede l’ignaro Santiago Nasar, ma gli abitanti del villaggio, che con il proprio ambiguo comportamento non hanno contribuito certo a far chiarezza sulla turpe azione commessa dall’accusato. Parlando, essi hanno impedito che la verità venisse a galla; tacendo, essi hanno reso possibile l’assassinio. In altre parole, sembrerebbe che per lo scrittore disonore, colpa e delitto costituiscano i tratti essenziali di un mistero che la collettività – e il romanzo con essa – intende fermamente preservare, anziché risolvere (B. Arpaia). Un mistero “politico” che presenta radici scoperte e si alimenta di quella “solitudine collettiva” di cui si è già discorso. Un mistero giuridico che è reale e che proprio per questo sa porsi a fondamento e limite di una giustizia tutta particolare.

ENZO DI SALVATORE