CAFFE' ITALIA / CAFFE' EUROPA

La Basilicata dice no al petrolio e il Governo ricorre alla Corte costituzionale

Il Governo Monti ha impugnato dinanzi alla Corte costituzionale la legge della Regione Basilicata sul petrolio e sul gas. Che quella legge fosse illegittima lo si era già detto: essa viola il principio di leale collaborazione, che sempre deve presiedere ai rapporti tra lo Stato e la Regione.
A leggere, però, il testo del ricorso pubblicato ora sulla Gazzetta Ufficiale si resta perplessi.
Il Consiglio dei ministri sostiene che la legge lucana leda in più punti la Carta costituzionale. Perché – si dice – quella legge invaderebbe la competenza dello Stato sulla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; perché violerebbe il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e gli obblighi imposti dall’Unione europea; perché, infine, comprometterebbe la libertà di iniziativa economica del privato ed anche il principio di eguaglianza, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, che in ogni circostanza deve essere osservato nella limitazione di un diritto.
Nel suo ricorso il Governo afferma che la legge sull’energia del 2004 faccia carico allo Stato e alle Regioni di garantire: 1) i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia su tutto il territorio nazionale; 2) “l’adeguato equilibrio territoriale nella localizzazione delle infrastrutture energetiche, nei limiti consentiti dalle caratteristiche fisiche e geografiche delle singole Regioni”.
In relazione al primo punto, si sostiene che la legge regionale, “ostacolando lo sviluppo della rete dei gasdotti di interesse nazionale e con essa l’efficiente erogazione di gas, determina l’impossibilità di provvedere alle esigenze fondamentali dei cittadini”. Che c’entra questo con quanto disciplinato dalla legge regionale? La legge della Regione Basilicata si riferisce alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli idrocarburi, non già alla distribuzione dell’energia. Il richiamo ai livelli essenziali delle prestazioni appare del tutto fuori luogo, giacché la garanzia di detti livelli è posta dalla legge del 2004 in relazione “alle modalità di fruizione” dell’energia e “ai criteri di formazione delle tariffe e al conseguente impatto sulla formazione dei prezzi”.
Quanto al secondo punto, è fin troppo evidente che la prescrizione sulla localizzazione delle infrastrutture energetiche sia indirizzata non già alla Regione, ma allo Stato, il quale, nel decidere dove dislocare gli impianti, deve, appunto, garantire che si rispetti adeguatamente l’equilibrio territoriale. Proprio ciò di cui si duole la Regione Basilicata!
Il Governo asserisce, poi, che l’art. 52-quinquies, comma 6, del DPR 327/2001, garantisca un’adeguata partecipazione della Regione ai procedimenti autorizzatori, contemplando la possibilità, per la Regione dissenziente, di chiedere sempre “una nuova valutazione dell’opera” e di sottoporre sempre al Governo “una proposta alternativa”. Alla luce di questa previsione legislativa, esso ritiene che il rifiuto di collaborare, riverberandosi “in un appesantimento del procedimento amministrativo” in ragione del fatto che in questo modo si accorderebbe automaticamente alla Regione la possibilità di chiedere una nuova valutazione dell’opera e la presa in considerazione di una proposta alternativa, si traduca in una violazione del principio costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa. Ebbene, anche a non voler considerare che l’art. 52-quinquies faccia riferimento unicamente alle strutture lineari energetiche (gasdotti, elettrodotti, oleodotti), ci sarebbe da chiedersi: si è accorto il Governo – e con esso l’Avvocatura dello Stato che ha redatto il ricorso – che quella previsione legislativa dell’art. 52-quinquies non è più in vigore da tempo? Il decreto sviluppo dello scorso giugno (convertito in legge ad agosto) ha modificato l’art. 52- quinquies: ora la Regione non può più chiedere né una nuova valutazione dell’opera, né che si consideri un progetto alternativo.
Ancora: nel ricorso si dice che la legge della Regione Basilicata viola gli obblighi imposti dall’Unione europea. È sufficiente osservare che la Direttiva europea richiamata dal Governo ha ad oggetto il “mercato” del gas naturale, non la prospezione, la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi. Il Governo cita in proposito una disposizione del Preambolo della Direttiva, la cui efficacia normativa – come ogni giurista sa – è del tutto controversa. E però dimentica di citare l’art. 1 della Direttiva, la cui efficacia normativa non può dirsi certo controversa. In esso si legge: “La presente direttiva stabilisce norme comuni per il trasporto, la distribuzione, la fornitura e lo stoccaggio di gas naturale”.
L’ultima questione che resta da affrontare riguarda l’affermata violazione della libertà di iniziativa economica privata e del principio di eguaglianza, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità. Nel ricorso si dice che il “rifiuto aprioristico e totale del rilascio dell’intesa” impedisce “la ponderazione delle singole istanze, necessaria all’assunzione di misure proporzionate alle concrete fattispecie ad esse sottese”. A me pare che, da questo punto di vista, il richiamo al principio di eguaglianza sia inconferente.
Il fatto che la libertà di iniziativa economica possa subire restrizioni e che queste debbano essere proporzionate e non affette da irragionevolezza non dipende, infatti, dall’operatività del principio di eguaglianza, ma dal riconoscimento che della stessa libertà è effettuato in Costituzione e dalla esigenza che questa, in presenza di beni costituzionali contrapposti, non venga sacrificata oltre quanto strettamente necessario; sebbene debba, poi, ricordarsi che, proprio in relazione alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli idrocarburi, il diritto dell’Unione europea – che pure il Governo tira in ballo – acconsente a che siano stabilite condizioni e requisiti particolari per l’esercizio di tali attività, se così giustificato da motivi di sicurezza pubblica, pubblica sanità, protezione dell’ambiente e quant’altro.

ENZO DI SALVATORE


Consultare gli italiani sull'energia (e sul petrolio)

Da un paio di giorni il Ministero dello sviluppo economico ha avviato una “consultazione pubblica” online sulla strategia energetica del nostro Paese, che resterà aperta fino al 30 novembre prossimo. I motivi di questa scelta sono chiari: il contesto nazionale e internazionale è difficile; la crisi economica attanaglia anche l’Italia; il settore energetico è strategico per le sorti dello Stato; occorre, pertanto, rilanciarlo.
Per rispondere alle domande formulate dal Ministero è necessario indicare le proprie generalità, l’indirizzo e-mail e la società di appartenenza. Dunque, la consultazione pubblica non è indirizzata solo ai cittadini. Ed è legittimo supporre che non sia neppure riservata solo agli italiani, essendo evidente che molte società che operano nel settore energetico sono straniere. La prima domanda che vorrei porre a chi pone domande è: vi pare normale che una società estera venga a dirci in che modo vada sviluppata la strategia energetica nazionale?
Per rispondere alle domande formulate dal Ministero è necessario avere almeno tre lauree. Sfido chiunque a comprendere esattamente una sola delle domande poste. Si dirà: ma per comprendere correttamente quanto chiesto è sufficiente seguire il “documento per la consultazione pubblica” ivi allegato. Bene, apriamo, allora, l’allegato.
Esso si compone di ben 114 pagine e a leggerlo un punto sembra essere abbastanza chiaro: il Ministero dello sviluppo economico non vuol sapere dagli italiani quale strategia energetica occorra  mettere in atto per superare la crisi. No. Il Ministero rende noto agli italiani quale strategia energetica nazionale porterà avanti nei prossimi anni. E, piaccia o no, ribadisce a chiare lettere che questa strategia passerà attraverso un rilancio delle attività petrolifere. Come? Per il tramite di una semplificazione degli iter autorizzativi (prevedendo il rilascio di un titolo abilitativo unico); una “rimodulazione” dei limiti di tutela offshore imposti dal codice dell’ambiente (cancellando o riducendo il limite delle 12 miglia marine per le attività petrolifere in mare); il rafforzamento dei “poli tecnologici/industriali” in Emilia-Romagna, Lombardia, Abruzzo, Basilicata e Sicilia (sviluppando ulteriormente i distretti energetici già presenti in detti territori; il che – se tanto mi dà tanto – per l’Abruzzo potrebbe, ad esempio, voler dire rilanciare il progetto sul Centro Oli di Ortona).
Sorvolo su altre questioni più tecniche (e assolutamente discutibili, come ad esempio quella relativa alla disciplina della politica energetica dell’UE dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona; al fatto che in sede europea ci sia una “proposta” di direttiva che miri a cancellare la distinzione tra permessi di ricerca e concessione alla coltivazione – come se fosse diritto vigente!) e mi fermo a pag. 114. Mi fermo qui perché le parole finali contenute in questa pagina la dicono lunga sullo spirito che anima l’intero documento: “sarà più importante accelerare la rimozione di ostacoli di natura normativa e autorizzativa alla realizzazione di grandi opere”. Proprio così: ostacoli di natura normativa. Senza che ci si interroghi troppo sul perché di alcune scelte legislative passate. Sul perché, ad esempio, nel 2010 si sia inteso tutelare il mare italiano con i limiti che conosciamo.
È evidente, allora, che se il diritto viene visto come un ostacolo non resti molto da aggiungere. Ed è altresì evidente che, dinanzi a dichiarazioni di questo tipo, anche il valore di una consultazione pubblica lasci il tempo che trova.

ENZO DI SALVATORE



Il riordino delle Province secondo la “spending review

Il decreto-legge del Governo sulla “spending review” – convertito ora in legge dal Parlamento – disciplina, tra le altre cose, il riordino delle Province italiane. L’art. 17 del decreto, nella versione modificata dalle Camere, stabilisce, infatti, che tutte le province delle Regioni a Statuto ordinario esistenti alla data di entrata in vigore del decreto siano oggetto di riordino sulla base di una procedura indicata dallo stesso articolo: il Consiglio dei ministri, con apposita deliberazione, determina i criteri per il riordino delle Province; entro settanta giorni dalla pubblicazione della deliberazione del Consiglio dei ministri (che risale al 20 luglio scorso), il Consiglio delle autonomie locali approva “una ipotesi di riordino” e “la invia alla regione”. Entro i venti giorni successivi, la Regione trasmette al Governo “una proposta di riordino” (e ciò anche qualora il Consiglio consultivo non abbia formulato la sua “ipotesi”). Entro sessanta giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione del decreto, “le Province sono riordinate” con legge, sulla base delle proposte regionali. Se la Regione non avrà formulato alcuna proposta, sarà la legge del Parlamento a decidere tutto, sulla base di un parere della Conferenza unificata.
Ricapitolando: gli Enti locali “ipotizzano”; le Regioni “propongono”; lo Stato “(ri)ordina”.
Ora, a mio parere, questa disciplina è del tutto discutibile; non già dal punto di vista dell’obiettivo che si propone di conseguire, ma dal punto di vista della sua legittimità costituzionale: il fine non giustifica il mezzo. Almeno non nel diritto.
L’art. 133 della Costituzione stabilisce che “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”. Su “iniziative” dei Comuni, si badi, non su loro “ipotesi”. Questo vuol dire che il procedimento di riordino delle Province non può essere calato dall’alto, ma deve muovere necessariamente dal basso: la Regione è “sentita” e la legge dello Stato è chiamata ad accogliere nel suo seno la modifica territoriale desiderata. Il Parlamento è qui autorizzato ad adottare solo una legge meramente “formale”. Se così non fosse, si finirebbe per ammettere che anche in altre ipotesi la legge dello Stato (ordinaria o costituzionale) possa essere “di sostanza”: come, ad esempio, nel caso della creazione di nuove Regioni o di fusione di Regioni esistenti (art. 132 Cos.) o nel caso di distacco di Province e di Comuni da una Regione ad un’altra. Per questa via si potrebbe essere tentati di sostenere persino che la legge dello Stato possa definire i contenuti dell’autonomia delle Regioni a Statuto speciale, visto che l’art. 116 stabilisce che “il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”.
È evidente, allora, che non è questo il “senso” della previsione costituzionale dell’art. 133: la ratio dello specifico procedimento ivi disciplinato si collega alla garanzia dell’autonomia locale, la quale non può essere vanificata da un intervento dello Stato centrale. E di questo hanno perfetta consapevolezza anche il Governo nazionale e i parlamentari che hanno convertito in legge il decreto sulla “spending review”, giacché essi tentano di aggirare l’“ostacolo” dell’art. 133 Cost. contemplando, in luogo del procedimento sancito dalla Costituzione, una (pseudo) partecipazione dei Comuni, per il tramite del Consiglio delle autonomie locali. Partecipazione, questa, che non è peraltro neppure garantita, visto che in assenza di qualsiasi “ipotesi” o “proposta” lo Stato farà comunque da solo; e, cioè, si sostituirà irrimediabilmente agli Enti locali e alla Regione nella decisione finale da assumere.

ENZO DI SALVATORE

La Basilicata dice no al petrolio: una previsione legislativa inutile e illegittima

1. Tra i numerosi emendamenti proposti dalla Giunta della Regione Basilicata al disegno di legge di “assestamento del bilancio” ve n’è uno che, accolto la notte scorsa dal Consiglio all’unanimità, si propone di affrontare di petto la spinosa questione delle attività petrolifere.
Racchiuse in un articolo composto di tre commi, denominato “Provvedimenti urgenti in materia di governo del territorio e per la riduzione del consumo di suolo” (art. 19 septies), le modifiche introdotte ruotano attorno a quest’idea: che la Regione Basilicata, a far data dall’entrata in vigore della legge, non rilascerà più l’intesa per il “conferimento di nuovi titoli minerari per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”. Previsione, questa, che viene estesa anche “ai procedimenti amministrativi in corso”, con espressa esclusione, però, dei “titoli minerari in essere”.
 
2. Il Presidente della Regione De Filippo ha spiegato in Aula che l’articolo 19 septies ha formalmente ad oggetto il governo del territorio e non l’ambiente. Un riferimento espresso all’ambiente, a parer suo, avrebbe reso più “vulnerabile in termini costituzionalistici” la proposta legislativa, sul presupposto, invero non esplicitato, che la tutela dell’ambiente sia, appunto, materia di esclusiva competenza dello Stato. Nessuno dei consiglieri ha, tuttavia, osservato che la materia governo del territorio – che la Costituzione annovera tra le competenze legislative concorrenti della Regione – ha riguardo all’edilizia e all’urbanistica e non all’ambiente o all’energia.
Certo, l’esercizio delle attività petrolifere si intreccia inevitabilmente ad altre materie (tutela dell’ambiente, tutela della salute, agricoltura, ecc.) e tra queste anche a quella del governo del territorio (si pensi alla disciplina agli impianti). Ma l’oggetto principale dell’art. 19 septies è un altro: l’energia. E la Corte costituzionale ha da tempo chiarito che nel caso in cui siano coinvolti più oggetti il criterio da seguire è quello della prevalenza della materia (v. ad es. sentenze n. 278 del 2010 e n. 331 del 2010).

3. L’energia è materia di competenza legislativa concorrente: lo Stato pone i principi fondamentali della materia, la Regione fa il resto. I margini di azione delle Regioni dipendono, tuttavia, dai concreti spazi lasciati liberi dallo Stato. Non dovrebbe essere così, ma di fatto lo è. Ora, la questione che qui ci occupa attiene alla disciplina delle funzioni amministrative, che la legge dello Stato ha attratto a sé.
La legge n. 239 del 2004 stabilisce, infatti, che “sono esercitati dallo Stato (…) i seguenti compiti e funzioni amministrativi: (…) n) le determinazioni inerenti la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, ivi comprese le funzioni di polizia mineraria, adottate, per la terraferma, di intesa con le regioni interessate”. Per parte sua, l’art. 19 septies dispone che “la Regione Basilicata (…) non rilascerà l’intesa, prevista dall’art. 1, comma 7, lettera n) della legge 23 agosto 2004, n.239[1].
Questa previsione è, almeno dal punto di vista giuridico, ad un tempo, perfettamente inutile e costituzionalmente illegittima: è perfettamente inutile, in quanto il “decreto sviluppo” – attualmente in fase di conversione in Parlamento – stabilisce che, in caso di mancata espressione da parte delle amministrazioni regionali degli atti di assenso o di intesa previsti dall’art. 1, comma 7, della legge n. 239 del 2004, il Governo procederà egualmente al rilascio del titolo (art. 38); è costituzionalmente illegittima, in quanto si pone in aperta violazione del principio (costituzionale) di leale collaborazione, il quale – come ha sottolineato la Corte costituzionale in più di una occasione – “deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni” (cfr. sent. n. 31 del 2006). La Regione non può, infatti, stabilire preventivamente e in via generale attraverso una sua legge che non stringerà l’intesa con lo Stato. Trattandosi di funzioni amministrative, essa è chiamata ad esprimersi di volta in volta, valutando il singolo caso concreto [2].
Quanto all’ultimo comma – laddove si dice che “sono fatte salve le intese relative a titoli minerari in essere” – la previsione ivi recata appare, invece, del tutto superflua, essendo evidente che se i titoli minerari sono già “in essere” l’intesa della Regione è stata già rilasciata.

ENZO DI SALVATORE



[1] All’art. 19 septies si precisa: “di cui all’accordo del 24.4.2001”. Si tratta dell’accordo siglato fra il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato e i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano sulle modalità procedimentali per l’esercizio delle funzioni amministrative relative alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione di idrocarburi in terraferma.

[2] Questa previsione legislativa – se non ci si inganna – contraddice anche l’impegno assunto dalla Regione Basilicata attraverso il memorandum d’intesa siglato con lo Stato nel 2011. Con ciò non si vuole, tuttavia, sostenere che il memorandum consenta allo Stato di non richiedere più l’intesa, sul presupposto che la volontà della Regione sia stata definitivamente manifestata nell’accordo del 2001: l’intesa è relativa a singoli procedimenti autorizzatori. 




La scongiurata elusione dell’esito referendario sull’affidamento diretto dei servizi pubblici locali

1. La sentenza n. 199/2012, adottata dalla Corte costituzionale il 20 luglio scorso, presenta molteplici aspetti di interesse e verrà probabilmente ricordata per aver evitato che il legislatore eludesse il risultato del referendum tenutosi il 12 e 13 giugno 2011. Tuttavia, ciò che interessa sottolineare in queste brevi note non è il risultato ottenutosi con questa decisione, bensì la via che si è seguita per giungervi, che – occorre sottolinearlo sin da subito – è stata quella del giudizio in via principale, nell’ambito del quale le Regioni sarebbero limitate quanto ai parametri di costituzionalità invocabili. Per poter andare oltre, occorre preliminarmente riepilogare in breve i fatti che hanno condotto alla sentenza in parola.
Nelle date su indicate, il corpo elettorale si pronunciava sull’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il quale limitava fortemente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali. A soli 23 giorni dall’esito della consultazione referendaria, veniva emanato il d.l. n. 138/2011 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge 14 dicembre 2011, n. 148), che all’art. 4 recava l’ “adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”. Nonostante la rubrica, la ratio ispiratrice della normativa era assolutamente analoga a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008. L’elusione dell’esito referendario ha, dunque, indotto diverse Regioni a proporre impugnazione avverso la nuova regolazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali; impugnazione, che la Corte ha accolto con la sentenza in commento, in quanto ha condiviso le censure regionali secondo cui la norma impugnata avrebbe nella sostanza riprodotto la norma oggetto dell’abrogazione referendaria. Anzi, la Corte ha ritenuto che la nuova normativa “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi” ed, inoltre, “riproduce, ora nei principi, ora testualmente, talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008”.

2. Si è detto in apertura che ciò che interessa commentare in questa sede non è tanto l’esito cui la Corte è arrivata – che, peraltro, sia detto per inciso, è apprezzabile – quanto la via processuale con cui vi è giunta. La questione, infatti, è arrivata all’attenzione della Corte costituzionale mediante alcuni ricorsi regionali, che hanno dato avvio ad un giudizio in via principale, ed è stata risolta sulla base dell’art. 75 Cost. (Considerato in diritto, 5.2.3.: “Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 201, (…), per violazione dell’art. 75 Cost.”). Tuttavia, è ben noto che, secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza costituzionale, le Regioni possano agire in via principale solo per dedurre la lesione delle proprie competenze costituzionalmente garantite e non, invece, invocando come parametro norme costituzionali estranee al Titolo V della Costituzione, a meno che la violazione di quest’ultime non ridondi anche in una violazione del riparto delle competenze. Nonostante balzi immediatamente all’evidenza che l’art. 75 della Costituzione, che disciplina il referendum abrogativo, non attiene al riparto delle competenze, la Corte ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale comunque ammissibile.
Invero, il Giudice delle leggi, richiamato il proprio indirizzo giurisprudenziale, ritiene che le condizioni di ammissibilità delle censure sono soddisfatte, perché “le ricorrenti assumono che, con l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che riduceva le possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle Regioni e regolamentare degli enti locali, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si sono riespanse. (…) Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (…), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali”.
L’argomentazione costituisce chiaramente un “artificio”, con cui la Corte evita di dover dichiarare inammissibile la censura proposta, riuscendo a giungere ad una pronuncia di merito che tuteli l’esito referendario. E, per dimostrare che si tratta effettivamente di un (utile) “artificio”, basta richiamare alla mente la sent. n. 325 del 2010. Lì la Corte si pronunciava propria sulla legittimità costituzionale  dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (poi abrogato dal referendum e ora sostanzialmente ripreso dalla nuova normativa oggetto di impugnazione) e riteneva che “la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (…) va ricondotta (…) all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ‘tutela della concorrenza’”. Dal che consegue che “la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza” (Considerato in diritto, 7.).
Orbene, se è vero che il nuovo art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 è sostanzialmente analogo al più volte richiamato art. 23-bis (abrogato col referendum), se ne deve dedurre, mutatis mutandis, che il giudizio di prevalenza della competenza statale su quelle regionali e locali formulato nella sentenza n. 325/2010 in riferimento a quest’ultima disposizione debba valere anche per la prima. Ma se la competenza statale sulla “tutela della concorrenza” è prevalente rispetto a quella residuale sui “servizi pubblici locali”, non è chi non veda come non possa mai prodursi alcuna “possibile ridondanza” sulle competenze regionali, per via del ripristino della normativa abrogata dal referendum. Infatti, una “ridondanza” vi può essere quando sull’oggetto di disciplina permane la potestà legislativa regionale; permanenza che, però, in tale caso può escludersi, una volta affermata la prevalente riconducibilità del nucleo essenziale della disciplina alla competenza esclusiva statale sulla “tutela della concorrenza”.
Nel nostro ordinamento, peraltro, se un oggetto di disciplina appartiene alla competenza legislativa esclusiva statale, il solo fatto che il legislatore nazionale rinunci ad esercitare su di essa la propria potestà non comporta l’assegnazione della medesima alle Regioni, né tale evenienza può verificarsi in presenza di un “vuoto” normativo, come quello apertosi a seguito della consultazione referendaria.
Per questa parte, dunque, il percorso argomentativo della Corte soffre di un eccessivo attaccamento al precedente consolidato orientamento, che la porta, pur di riuscire ad arrivare alla pronuncia di merito, ad affermare quanto in precedenza negato, nonostante in più punti della decisione essa stessa si richiami proprio alla sentenza n. 325 del 2010.
Dalla vicenda non può che trarsi la conclusione che l’asimmetria tra Stato e Regioni nell’invocazione dei parametri costituzionali risulta spesso essere un anacronistico retaggio del primo regionalismo, che stride con la posizione assegnata alla Regioni dal nuovo Titolo V, nel quale scompare ogni altra asimmetria, come il controllo di merito sulle leggi regionali e i diversi regimi di controllo preventivo (sulle leggi regionali) e di controllo successivo (su quelle statali).
Le forzature che talvolta, come in questo caso, accompagnano l’affermazione di una lesione indiretta delle competenze regionali potrebbero essere evitate se la Corte mutasse il proprio orientamento giurisprudenziale, agevolando il suo stesso lavoro.
D’altronde, non può negarsi che, nel caso di specie, i ricorsi regionali hanno assolto un’indubbia funzione – per così dire – di “igiene costituzionale”, se sol si pensi che per il loro tramite non è stato posto nel nulla l’esito del referendum del 12-13 giugno 2011, a prescindere da ogni giudizio sulla meritevolezza, o meno, della scelta lì effettuata.
Un revirement della Corte sul punto gioverebbe anche in altre occasioni, in quanto renderebbe possibile un tempestivo esercizio del controllo di costituzionalità sugli atti statali (senza dover attendere l’instaurazione di un giudizio, nel quale sollevare la questione in via incidentale), ma soprattutto riuscirebbe ad “illuminare” alcuni “coni d’ombra” della nostra giustizia costituzionale. Si riuscirebbero, cioè, a rendere più agevolmente giustiziabili alcune discipline, che raramente potrebbero per altra via giungere all’attenzione dello scrutinio di costituzionalità della Corte (ad esempio, la legge elettorale nazionale).

PAOLO COLASANTE


Il “decreto sviluppo” e gli idrocarburi: un colpo al cerchio e uno alla botte
La bozza di “decreto sullo sviluppo”, circolata sul web appena una settimana fa, si proponeva di aggiungere all’art. 6, comma 17, del codice dell’ambiente, una breve disposizione, con cui si diceva che i divieti posti alla ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e/o gassosi, relativi alle 12 o alle 5 miglia marine, si applicassero non a tutti i procedimenti autorizzatori in corso, ma solo a quelli relativi ai permessi di ricerca. Ciò, qualora avesse trovato conferma, avrebbe comportato che unicamente i procedimenti relativi ad istanze di coltivazione già in corso restassero (nuovamente) autorizzati. Ora, invece, il testo licenziato dal Governo il 15 giugno scorso (recante “misure urgenti per la crescita del Paese”) non si limita ad aggiungere all’art. 6, comma 17, una disposizione, ma finisce per riscrivere completamente la disciplina introdotta con il “decreto Prestigiacomo” nel 2010. Con due conseguenze assolutamente degne di nota. Anzitutto, con esso si sancisce il divieto di cercare ed estrarre gas e petrolio “nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette”. Ciò comporta che il precedente limite delle 5 miglia marine – relativo per l’innanzi solo alle attività petrolifere – venga ora portato a 12 miglia e che esso concerna non solo il petrolio, ma anche il gas. In secondo luogo, nonostante si mantenga intatto il divieto di cercare ed estrarre idrocarburi nelle aree marine e costiere protette e sebbene il limite sia ora più esteso (da 5 a 12 miglia) per tutta la fascia costiera italiana, il comma riscritto dal Governo stabilisce, tuttavia, che il divieto di cercare ed estrarre idrocarburi non tocchi quei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del “decreto Prestigiacomo”. Questo vuol dire che, in modo retroattivo, esso fa salvi i procedimenti autorizzatori già in corso prima del 26 agosto 2010, data di entrata in vigore del decreto legislativo (adottato dal Governo il 29 giugno dello stesso anno). Procedimenti, questi, che, interdetti prima dal “decreto Prestigiacomo”, potranno ora proseguire indisturbati verso la meta che li attende.
Insomma, sarebbe proprio il caso di dirlo: il “decreto sullo sviluppo”, così disponendo, finisce per dare un colpo al cerchio e uno alla botte.

ENZO DI SALVATORE


L'Unione fa la forza: i piccoli comuni e la sfida del Patto di stabilità


Per i cinefili “Patto con la morte” è semplicemente un film di Stephen Becker; per i Comuni è sinonimo di un altro Patto: quello di stabilità interno. Introdotto con legge n. 448 del 1998 (art. 28) al fine di responsabilizzare finanziariamente i vari livelli di governo, esso escludeva dall’ambito soggettivo i piccoli Comuni. Questa situazione, però, è ora mutata. Secondo l’art. 25, comma 6, del d.l. n. 1/2012, infatti, dal 2013 sottoposti ai vincoli del patto non saranno solo le Province ed i Comuni con più di 5000 abitanti, ma anche i Comuni con più di 1001 abitanti. A partire dal 2014, invece, cesserà la premialità, da sempre prevista, per le Unioni di Comuni. L’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138/2011, estende la disciplina del Patto alle Unioni costituite da enti con meno di 1000 abitanti. Da un’attenta lettura di quest’ultima disposizione emerge un’incongruenza, se non un vero e proprio vacuum normativo. I Comuni con più di 1001 abitanti potrebbero evitare l’incudine del Patto di stabilità delegando all’Unione di Comuni l’esercizio congiunto di alcune funzioni, in conformità all’art. 32 TUEL. Così facendo, la soggezione al Patto sarebbe circoscritta alle funzioni non trasferite. Lo stesso discorso non può essere svolto, invece, per i Comuni con meno di 1000 abitanti, i quali, dal 2014, non saranno incentivati ad unirsi, nonostante siano i principali beneficiari potenziali della disciplina prevista dall’art. 32 TUEL. Neanche la circolare n. 5/2012 del 14 febbraio della Ragioneria dello Stato, deputata a dettare i criteri interpretativi per l’applicazione della disciplina pattizia, ha fugato i dubbi nutriti in proposito.

L’idea di questo intervento è nata pensando al mio Comune di residenza. A parere di chi scrive, Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbero pensare di dare nuova linfa alla propria organizzazione ridisegnando la loro struttura in un’ottica unitaria, sulla base di quanto affermato in un recente convegno dal dirigente toscano Izzi, secondo cui “il Comune come lo conosciamo oggi non ci sarà più”. L’istituzione dell’Unione, però, consiste in un vero e proprio processo di trasformazione culturale, non privo di ostacoli. In primo luogo, nonostante si viva nell’era della globalizzazione, il virus del campanilismo non è ancora debellato (c.d. "paradigma dell’identità"). In secondo luogo, non sempre l’opinione pubblica è in grado di dare un giudizio completo ("limbo del consenso"), soprattutto per il ricorso a canali comunicativi poco apprezzati dalla popolazione ("Mismatching comunicativo").

Le Unioni di Comuni mostrano molti elementi di comunanza, soprattutto con riferimento alle funzioni delegate. Queste ultime, e le relative risorse, sono definite dallo Statuto, approvato dai Consigli dei Comuni partecipanti, ai sensi dell’art. 32 TUEL. L’obiettivo di ogni singola Unione dovrebbe essere quello di “omogeneizzare verso l’alto i servizi forniti alla popolazione” [Bolgherini]. Per fare ciò, i singoli Comuni rinunciano a fette di competenze in favore dell’ente sovracomunale, che garantirà l’omogeneità dei servizi su tutto il territorio, in termini procedurali, di costi e di offerta. Dall’analisi di alcuni Statuti di Unioni, queste sono le principali funzioni oggetto di gestione congiunta: le attività istituzionali e di segreteria; l’Ufficio per le relazioni col pubblico; la tutela legale; i servizi demografici; i servizi cimiteriali; il personale; le entrate tributarie e i servizi fiscali; gli appalti e i contratti di lavori, servizi e forniture; i servizi statistici, informativi e di e-governament; la polizia municipale; la viabilità, la circolazione e i servizi connessi; la gestione del territorio (catasto, gestione e manutenzione del verde pubblico, vigilanza e controllo antisismico, ecc.); i servizi tecnici, urbanistica ed edilizia; lo sviluppo economico; lo sportello unico delle attività produttive; i servizi sociali; le politiche abitative e le funzioni comunali in materia di edilizia residenziale pubblica; i servizi scolastici; la cultura, il turismo e le attività ricreative; l’agricoltura e l’ambiente; la difesa idrogeologica del territorio; la gestione e la valorizzazione del patrimonio forestale.

Sembrerebbe tutto facile, ma non è così. Quanto alla costituzione di un corpo di polizia municipale (rectius: dell’Unione), le difficoltà attengono essenzialmente alla dipendenza dei vigili urbani dai sindaci. Per esempio, l’Unione Terre di Castelli ha optato per una funzione mista creando un corpo unico di vigili, con presidi in ogni Comune. Non meno complicato è il trasferimento dei servizi demografici. Infatti, molte competenze sono proprie dello Stato e vengono svolte dal Sindaco in qualità di ufficiale civile: non sono delegabili. Last but not least, il trasferimento del personale. Senza dubbio, rappresenta l’elemento fondamentale per l’efficacia dell’Unione, e per la sua durata, sebbene un fattore determinante sia rappresentato dal numero dei Comuni facenti parte dell’Unione. Nel caso prospettato per i Comuni di Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbe verificarsi l’effetto contrario. Il numero esiguo di Comuni potrebbe essere sinonimo di precarietà dell’Unione, il cui fallimento renderebbe problematica la ricollocazione dei dipendenti. Il discorso sarebbe diverso se l’Unione si estendesse anche agli altri comuni contermini. È opportuno ricordare, però, che nella quasi totalità dei casi, il trasferimento del personale ha portato ad una riduzione dello stesso e dei relativi costi, ma anche ad un miglioramento qualitativo della struttura amministrativa e burocratica.

Per concludere vorrei tornare al punto di partenza. Il ricorso all’Unione di Comuni potrebbe essere la strada da seguire per quei Comuni con più di 1000 abitanti, finora mai soggetti al Patto di stabilità interno. Sia chiaro, questo suggerimento non è rivolto ad eludere la norma, ma ha obiettivi più lungimiranti. Nonostante il Patto sia stato violato da una piccola percentuale di enti, la riduzione del debito pubblico è stata piuttosto contenuta. Questo dimostra la miopia o la “stupidità” del Patto. La colpa non è del Patto, ma del Legislatore. A tal proposito, la decisione di dar vita ad un soggetto intercomunale deve essere vista come una sfida d’efficienza, al fine di ottenere risultati migliori rispetto a quelli che si otterrebbero se ci limitasse a rispettare il Patto. La sopravvivenza di alcuni piccoli Comuni, e cioè la maggior parte di quelli italiani, passa dalla capacità di sapersi innovare. Il Patto è un rimedio agli errori del passato, l’innovazione è la sfida per il futuro.

NICOLA PISCIAVINO


Pasolini e i "No Tav"

Il giovane manifestante “No Tav”, che irride con frasi colme di disprezzo il giovane carabiniere inerme, ha evocato in taluni il ricordo dei tristi fatti di Valle Giulia e le parole che Pasolini pronunciò allora contro gli universitari in difesa dei celerini. Questo parallelo, che firme più o meno autorevoli del giornalismo italiano hanno ritenuto con convinzione di poter tracciare, risulta, a mio parere, del tutto superficiale. Non si tratta ovviamente di sapere quel che oggi avrebbe pensato Pasolini dei fatti di Val di Susa. Si tratta di sapere, invece, se quella analisi sociologica possa estendersi immutata agli scontri in atto.
A Valle Giulia, nel 1968, la contrapposizione tra studenti e poliziotti portava Pasolini a scrivere di “lotta di classe”. Una lotta che finì per mostrare il lato più inconsapevole della condizione vissuta dai protagonisti di quegli accadimenti: gli universitari, borghesi e figli di papà, da un lato; i poliziotti, non-borghesi e figli di operai e contadini, dall’altro. Due classi distinte, separate l’una dall’altra. Meglio detto. Una classe e una non-classe divise da una distanza sociale irriducibile: quella che lottava (gli studenti universitari figli della borghesia) e quella che non ha mai lottato (i poliziotti figli di operai e contadini). Vorrei essere più preciso. Nel caso del proletariato, della lotta dei padri non ne hanno beneficiato ideologicamente i figli-poliziotti; nel caso del sottoproletariato, della mancata lotta ideologica ne hanno “beneficiato” tutti gli altri: contadini da sempre, essi non hanno mai costituito una vera “classe” e già l’utilizzo del sostantivo “sottoproletariato” starebbe a provarlo. Sarebbe mai venuto in mente a qualcuno di definire la classe degli operai come classe della sottoborghesia?
Ora, a me pare che in Val di Susa non vi sia alcun “frammento di lotta di classe”. Chi leggesse con onestà lo scontro tra i "No Tav" e le forze dell’ordine con gli occhi di Pasolini arriverebbe alle seguenti conclusioni: che tra i "No Tav" non vi sono solo studenti universitari, ma anche impiegati, operai, contadini, disoccupati; che gli studenti universitari del 2012 non sono quelli del 1968, in quanto essi sono per lo più figli di impiegati, di operai, di contadini, di disoccupati ed anche figli di carabinieri e di poliziotti; che tra le forze dell’ordine vi sono figli di impiegati, di operai, di contadini, di disoccupati ed anche figli di carabinieri e di poliziotti. Se, dunque, nel 2012 di “classe” si vuole ancora parlare, deve parlarsi di medesima “non-classe”. Una “non-classe” che, da qualunque parte la si osservi, non ha “facce di figli di papà”. Gli universitari del ’68, i figli della borghesia di allora, non sono a Val di Susa. Quindi sarebbe vano cercarli lì. Essi sono altrove, magari a decidere che la Tav, costi quel che costi, comunque si farà.

ENZO DI SALVATORE


Quando il richiamo alla sicurezza e alla protezione del territorio diventa uno strumento per legittimare la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani, a fronte del ricorso effettuato contro i respingimenti verso la Libia di 200 persone di nazionalità somala ed eritrea nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2009.
Secondo la Corte, l’Italia si è resa responsabile di gravissime violazioni, prima tra tutte la mancata osservanza dell’art. 3 delle Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che recita: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”; principio, questo, il cui carattere assoluto era già stato affermato dai giudici europei in una precedente sentenza (Chahal c. Regno Unito).
I ricorrenti sarebbero stati esposti al rischio di subire torture e trattamenti inumani non solo in Libia, Paese notoriamente privo di un’adeguata tutela dei diritti umani, ma anche in Somalia ed Eritrea, dove vigono pratiche di detenzione e tortura dei cittadini, che tentino di abbandonare il Paese.
La Corte prosegue motivando il suo disposto sulla base del mancato rispetto del diritto ad un ricorso effettivo, ex art. 13 CEDU –“ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni” – e del divieto di espulsione collettiva sancito dall’art. 4 del Protocollo 4 della stessa Convenzione.
I profughi sarebbero stati respinti dalle autorità nazionali, da un lato, senza dare loro la possibilità di far valere i diritti lesi dinnanzi ad un organo giurisdizionale e, quindi, di invocare una protezione internazionale; dall’altro, senza  una previa verifica della situazione individuale di ciascuno, dei motivi della fuga dal Paese d’origine, negando pertanto il principio di individualità che è alla base del divieto suddetto.

Il “caso Hirsi” trae i suoi presupposti dalla seguente vicenda: nel maggio 2009 le autorità italiane intercettarono, a largo delle coste di Lampedusa, una nave carica di profughi e provvidero immediatamente a rispedirla a Tripoli. Dei  200 migranti, solo 24 furono rintracciati dal Comitato italiano per i rifugiati, che diede mandato a due avvocati dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani di presentare ricorso alla Corte europea. L’Italia è stata condannata ad un risarcimento di 15 mila euro più le spese nei confronti di 22 dei 24 ricorrenti, in quanto due dei ricorsi presentati sono stati giudicati inammissibili.

L’antefatto giuridico è costituito, oltre che dalla discussa normativa italiana sull’immigrazione, dal Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008.
L’art. 19 del suddetto accordo introduceva un meccanismo di lotta all’immigrazione illegale, attraverso la previsione di una rete di controlli, che vedeva, da un lato, la messa a disposizione da parte dell’Italia di nuove motovedette ed equipaggiamenti misti, dall’altro un sistema di telerilevamento per monitorare le frontiere da affidare a società italiane. L’accordo è stato sospeso nel 2011 a seguito della rivoluzione libica.

La sentenza della Corte europea ha un’importanza storica imprescindibile e rende necessario un ripensamento della politica sull’immigrazione; una politica che negli ultimi anni ha celato, dietro legittime ragioni di protezione e sicurezza, considerazioni propagandistiche che poco si adattano ad un efficiente sistema di tutela dei diritti dell’individuo in quanto tale, finendo spesso per scadere nel più ottuso nazionalismo. Occorrerebbe lasciare da parte gli interessi politici e le invettive populiste e “ripartire” dai diritti fondamentali dell’uomo.

ELEONORA CHIERICI



L’assoluta inutilità dell’emendamento sulla responsabilità dei magistrati

1. Come si è giunti all’approvazione dell’emendamento sulla responsabilità civile dei magistrati. – Com’è noto, nella fase di conversione in legge del Decreto “Cresci-Italia” (D.L. n. 1/2012) – varato dal Governo Monti per porre rimedio alla recessione della nostra economia – un deputato leghista (Gianluca Pini) ha proposto un emendamento al medesimo e, grazie allo “scudo” del voto segreto, PDL e Lega hanno riesumato la loro “antica” alleanza pre-Governo Monti, deliberando assieme l’approvazione della modifica.
Una prima perplessità che sorge in riferimento a questo emendamento riguarda l’omogeneità della problematica ivi disciplinata con il resto del testo del Decreto “Cresci-Italia”. L’emendamento appare, invero, del tutto “fuori-sede”, perché non presenta alcun collegamento con le impellenti necessità a cui il decreto (e, poi, la legge di conversione) era chiamato a far fronte.
Allora, si è detto che la norma andava scritta, perché trovava giustificazione negli obblighi europei pendenti in capo all’Italia. L’osservazione è parzialmente vera: tutto nasce dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo del 2006. Nell’occasione, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ritenne che lo Stato italiano avesse violato il Trattato perché la sua Corte di Cassazione non aveva applicato correttamente il diritto europeo. Da ciò derivò la condanna al risarcimento a carico dello Stato italiano. In senso non dissimile si è di recente pronunciata nuovamente la Corte di Giustizia (sentenza 24 novembre 2011, C-379/10). Ora come allora, la Corte ha stabilito che il diritto dell’Unione osta ad una normativa nazionale (come quella italiana della Legge n. 117/1988), che limiti la sussistenza della responsabilità dello Stato membro ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove detta limitazione conduca ad escludere la sussistenza di tale responsabilità nel caso in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente. Questo significa che, indipendentemente da ogni giudizio interno sull’operato del magistrato, la Corte di Giustizia UE è abilitata a condannare lo Stato italiano per aver leso i diritti del cittadino nell’applicazione del diritto europeo, per il tramite dei suoi magistrati. Non così, invece, quando l’errore coinvolga norme di diritto interno. In questo caso, la Corte di Giustizia nulla può, ma sarà – tutt’al più – lo Stato a dover equamente riparare il danno creato dal suo giudice. Dunque, se l’Unione europea c’entra qualcosa in questa vicenda, ciò è solo per la parte relativa al diritto europeo.
La necessità di una riforma della normativa italiana in materia di responsabilità civile dei magistrati dipende, perciò, non tanto dal fatto che ce lo “chieda” l’Unione europea, quanto dalla circostanza che il cittadino italiano verrebbe a ricevere una tutela differenziata per situazioni che, in realtà, sono analoghe. Anche se non sembra che l’emendamento riesca nell’obiettivo.

2. Le innovazioni apportate dalla nuova disciplina. – Si può ora passare ad esaminare nel merito il provvedimento. L’emendamento introdotto modifica, nello specifico, l’articolo 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117. Per i lettori più esigenti, nella tabella in calce al presente articolo sono evidenziate le differenze: in corsivo le aggiunte; in neretto le sostituzioni.
Si possono riscontrare cinque variazioni.
La prima riguarda la c.d. “legittimazione passiva” all’azione (cioè, la cerchia dei soggetti che possono essere convenuti in giudizio). L’azione – se l’emendamento passerà con successo anche il vaglio del Senato – non sarà più proponibile solo contro lo Stato, bensì anche “contro il soggetto riconosciuto colpevole” (comma 1). L’aggiunta di questo inciso dà luogo a un dilemma interpretativo. Da un lato, sembrerebbe voler dire che il cittadino leso da casi di “mala-giustizia” (sia consentito attingere dal vocabolario giornalistico) può agire direttamente nei confronti del magistrato (o del collegio di magistrati) che ha posto in essere l’errore, senza dover prima convenire in giudizio lo Stato (che, poi, si rivale sul magistrato). Ma, dall’altro lato, non è ben comprensibile cosa richieda la norma, quando dice che il soggetto contro cui si agisce deve essere “riconosciuto colpevole”. La locuzione sembrerebbe alludere, infatti, ad un previo riconoscimento di responsabilità del magistrato prima di poter agire contro lo stesso; nel qual caso, nulla cambierebbe, allora, rispetto all’attuale disciplina. Sembrerebbe, tuttavia, preferibile la prima opzione interpretativa, perché alla variazione del testo della disposizione deve necessariamente corrispondere una modifica normativa, altrimenti questa sarebbe inutiliter data (c.d. canone interpretativo del legislatore non ridondante).
Ciò nonostante, non si capisce a cosa giovi l’azione diretta. Solo un avvocato piuttosto maldestro potrebbe consigliare al suo cliente di aggredire in luogo dello Stato. Anzitutto, perché lo Stato è più solvibile. Aggredire, invece, il patrimonio di una persona fisica può dar luogo ad alcuni problemi, che dipendono dalle vicende personali del debitore. Inoltre, permanendo intatta la restante parte della legge, e, in particolare, l’art. 8, sembrerebbe continuare a vigere la regola secondo cui il magistrato non è responsabile dei danni arrecati nell’esercizio delle sue funzioni, se non nel limite di 1/3 della propria annualità (netta) di stipendio. Un esempio per chiarire il dato: se incorrendo in errore il magistrato ha provocato un danno per un milione di euro e il suo stipendio è pari a 45.000 euro netti l’anno, il cittadino potrebbe rivendicare da lui solo 15.000 euro (si badi: non per anno, ma in totale!).
Le restanti quattro modifiche incidono sulla disciplina dei presupposti – oggettivi e soggettivi – che possono dar luogo alla responsabilità civile del magistrato. Tuttavia, non è avventato dire che nulla (o quasi nulla) aggiungano alla previgente disciplina. Non la specificazione secondo cui “costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto” (comma 1), essendo questa una nozione già presente nel nostro ordinamento e generalmente valida. Non la modificazione del comma 2 (che stabilisce quando l’erronea attività di valutazione del fatto e delle prove possa dar luogo a responsabilità del magistrato), posto che quanto ivi inserito era già deducibile dalla lettura congiunta dei commi 2 e 3 del precedente testo. Infine, neppure la disposizione secondo cui il magistrato risponde civilmente, non solo per gli errori commessi con dolo o colpa grave, ma anche nei casi di manifesta violazione del diritto muta granché i presupposti al ricorrere dei quali può essere affermata la responsabilità del magistrato. Questa conclusione scaturisce, infatti, dalla definizione che della manifesta violazione del diritto dà il legislatore dell’emendamento (comma 3-bis). In particolare, ai fini della sua sussistenza, deve essere valutato:
1) se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata;
2) il carattere intenzionale della violazione;
3) la scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto;
4) in caso di violazione del diritto dell’Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un’istituzione dell’Unione, non abbia osservato l’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia.
Il punto sub 4) è l’unico effettivamente collegato con gli obblighi incombenti in capo all’Italia, in virtù della sua partecipazione all’Unione europea. Ed è anche l’unico degno di apprezzamento. La modifica sub 2), invece, è del tutto inutile, perché si riferisce ad un’ipotesi di dolo del giudice, già risarcibile ai sensi della precedente normativa. Quanto alle modifiche sub 1) e 3), esse sono elencate separatamente, sebbene siano collegate, perché il grado di scusabilità (o inescusabilità) dell’errore dipende proprio dal grado di chiarezza della norma violata. E però non si comprende come questa ipotesi si distingua da quella – già vigente – del comma 3, numero 1, laddove viene detto che il magistrato risponde, a titolo di colpa grave, qualora egli abbia posto in essere una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile.
Non sembra, infatti, che vi siano grossi spostamenti sul lato del presupposto oggettivo della responsabilità, se all’ipotesi della “grave” violazione si aggiunge quella della “manifesta” violazione. Né ve ne sono dal lato del presupposto soggettivo della responsabilità, se la violazione deve essere “determinata da negligenza inescusabile” (testo già vigente) o se deve valutarsi il grado di “scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto”.
Sembra, perciò, doveroso emettere un giudizio di pressoché totale inutilità della riforma, poiché dalla sua lettura non emergono soluzioni di continuità rispetto al pre-vigente sistema, salvo che per la parte in cui si riferisce alla violazione del diritto dell’Unione europea e per la possibilità di citare direttamente in giudizio il magistrato (sebbene, come già rilevato, questa scelta non sia conveniente e, quindi, non sembra verosimile che verrà seguita).

3. Prospettive di riforma. – È  evidente che nell’ordinamento italiano vi sia la necessità di intervenire sul tema della responsabilità civile dei magistrati, in quanto l’esercizio della funzione giurisdizionale non deve poter giustificare privilegi di sorta; tuttavia, occorre anche stare attenti a non varare riforme avventate (o, magari, quasi del tutto inutili, come quella in commento), che non badino alla peculiare funzione svolta dalla magistratura in Italia e, in generale, nello Stato di diritto.
Uno dei primi retaggi da rimuovere è, ad esempio, quello relativo alla fase di ammissibilità del giudizio instaurato avverso lo Stato per danni cagionati nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Questo è un inutile aggravio per il cittadino, potendo l’ammissibilità e il merito essere trattati nella stessa fase processuale. Peraltro, anche abolendo questo giudizio “preliminare”, i magistrati continuano ad essere sufficientemente garantiti dalla circostanza che sono giudicati da loro pari (né potrebbe essere diversamente). Trattamento, questo, che non è comune a nessun’altra categoria. Deve, però, essere mantenuta la necessità di aggredire prima lo Stato. L’azione diretta nei confronti del magistrato (introdotta dall’emendamento) potrebbe, infatti, costituire una continua minaccia, che osterebbe ad uno svolgimento sereno della funzione giurisdizionale. Tuttavia, qualora lo Stato venga condannato per l’illegittimo operato del magistrato, vi deve essere la rivalsa di questi verso il magistrato. Tale possibilità è già prevista dall’attuale normativa, ma un’eventuale riforma dovrebbe prevedere un più pregnante obbligo di rivalsa in capo allo Stato, la quale non dovrebbe più essere limitata nell’ammontare, per basilari ragioni di eguaglianza. In assenza di tali interventi, il magistrato non verrebbe adeguatamente “responsabilizzato” nell’esercizio delle sue funzioni.
A questi opportuni cambiamenti non può opporsi, come taluno fa, l’esito del referendum del 1987. La Corte costituzionale, infatti, nell’occasione chiarì che vi possono essere diversi modi per conciliare l’indipendenza della magistratura, l’esercizio della funzione giudicante, il diritto di difesa dei cittadini eventualmente lesi da quest’ultima e il principio di eguaglianza (nel senso di equiparazione di responsabilità fra i magistrati, le altre categorie di funzionari pubblici e –perché no? – tutti gli altri cittadini). Ma non sembra che l’emendamento recentemente adottato vada nella migliore direzione. Da ciò, la speranza che non venga approvato anche in Senato.

PAOLO COLASANTE


TESTO ORIGINARIO
TESTO MODIFICATO
1. Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. 
1. Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto
2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
2. Salvo i casi previsti dai commi 3 e 3-bis nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di valutazione del fatto e delle prove
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

3-bis. Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi del comma 1, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea.



Il Ministro dell'ambiente Clini e il problema del petrolio

Il Ministro dell’ambiente Clini, intervenendo alla VII edizione della manifestazione “Mediterre” di Bari, ha dichiarato che non vi è alcuna possibilità di bloccare le ricerche di petrolio in mare: la posizione del Governo al riguardo resta “quella della legge”, che “stabilisce delle regole” e “va applicata”. Chiunque pensasse di intraprendere una battaglia contro le ricerche del petrolio perderebbe in partenza. Non ci potrebbe essere alcun divieto in proposito, perché “questo va contro direttive e contro regole europee”. Del resto, la legge dello Stato è già ampiamente garantista. Essa contiene “norme di salvaguardia” per l’ambiente e assicura la partecipazione degli Enti locali nel procedimento, che mette capo al rilascio dei permessi e delle autorizzazioni: “la procedura di valutazione di impatto ambientale prevede sempre l’inchiesta pubblica” e gli enti locali vengono sempre “sentiti per legge”. Di ciò se ne tiene “naturalmente” conto. Per queste ragioni occorre difendere la legge strenuamente. Se invece si ritiene che essa “non sia sufficiente, si entra in una situazione che non fa bene all’ambiente, perché si aprono degli spazi che io non saprei dire da che parte vanno poi a chiudersi”. In altre parole: vietare il petrolio sarebbe impossibile perché contrasterebbe con il diritto dell’Unione europea. In ogni caso, non si capisce di cosa ci si debba dolere: la legge italiana tutela già l’ambiente ed è garantista al punto tale che persino gli enti locali possono esprimere il proprio punto di vista in occasione del rilascio dei permessi e delle autorizzazioni.

A parere del Ministro, la legge contiene delle regole e va applicata. Anche la Costituzione, aggiungerei. In questo annoso e stanco dibattito lo si dimentica quasi sempre. Come se la Carta costituzionale non prevedesse a chiare lettere che la competenza legislativa per il settore energetico spetti allo Stato e alle Regioni assieme e che lo Stato sia tenuto a fissare solo i principi fondamentali della materia. Come se essa non stabilisse che la potestà regolamentare spetti unicamente alla Regione. Come se essa non sancisse che l’esercizio delle funzioni amministrative spetti agli Enti locali e solo in via eccezionale allo Stato.
Ma ammettiamo pure che non sia così. Ammettiamo che la Costituzione sia cartastraccia, che la questione sia più complessa e che non si possa pensare di risolvere tutto in modo così schematico. Ammettiamo, cioè, che lo Stato debba fare tutto: adottare le leggi, adottare i regolamenti, rilasciare i permessi e le autorizzazioni. Nel 2003, la Corte costituzionale aveva osservato che l’invasione della competenza legislativa delle Regioni da parte dello Stato costituisce una deroga legittima “solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante (…) sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”. Ed ha aggiunto che occorre seguire un iter “in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”. Nella successiva sentenza n. 383 del 2005, in relazione alle funzioni amministrative e proprio con riguardo al problema del petrolio, ha poi chiarito che “dovendosi individuare un organo adeguatamente rappresentativo delle Regioni, ma anche degli Enti locali, (…) emerge come naturale organo di riferimento la Conferenza unificata”. Con la precisazione ulteriore che l’accordo “fra gli organi statali e il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata” debba darsi nella forma dell’intesa “in senso forte”. Ebbene, non mi pare che la legge dello Stato vada esattamente in questa direzione. Né mi pare che i regolamenti e gli atti amministrativi generali siano adottati di intesa con le Regioni e gli Enti locali. E neppure che nel rilascio dei permessi e delle concessioni gli Enti locali siano realmente coinvolti.

Si dirà: ma il Ministro Clini si riferiva alle attività in mare, non a quelle in terraferma. Ora, a parte il fatto che non si comprende per quale motivo le Regioni e gli Enti locali non dovrebbero avere alcuna competenza sul mare (territoriale) (come se la Costituzione ripartisse le competenze legislative e amministrative tra lo Stato e le Regioni secondo il criterio della terraferma o del mare), vorrei osservare che proprio in relazione alle attività in mare la legge dello Stato nega ogni diritto di partecipazione agli enti territoriali (Regione compresa). Forse il Ministro alludeva alla partecipazione al procedimento di valutazione di impatto ambientale. Che, però, non mi pare una gran cosa. Soprattutto se si tiene presente che la ricerca del petrolio in mare non sempre è sottoposta automaticamente a VIA. Lo è necessariamente solo quando ciò avvenga attraverso la tecnica della perforazione del pozzo esplorativo.   

Il Ministro sostiene che la legge “stabilisce delle regole” e che non va modificata. Pena il rischio di entrare in uno stato di incertezza. Vogliamo verificare il tasso di certezza che discende dalla normativa vigente e da quel che accade talvolta in concreto? L’attuale disciplina della materia è recata dalla legge n. 99 del 2009, che ha modificato sul punto la legge n. 239 del 2004. In ordine alla ricerca in terraferma, essa stabilisce che il permesso di ricerca del gas e del petrolio è rilasciato a seguito di un procedimento unico cui partecipano tanto lo Stato quanto la Regione interessata. Una volta che il permesso sia accordato, di ciò è data comunicazione ai Comuni (giusto perché la legge garantirebbe la partecipazione degli Enti locali). Ottenuto il permesso di ricerca, la società petrolifera può fare una cosa sola: svolgere attività di “prospezione” ossia eseguire “rilievi geologici, geofisici e geochimici (…) con qualunque metodo o mezzo, e ogni altra operazione, volta al rinvenimento di giacimenti, escluse le perforazioni dei pozzi esplorativi”.
In base al “permesso di ricerca” non è possibile, dunque, cercare gas o petrolio ricorrendo alla perforazione dei pozzi. Per fare questo occorre che la società petrolifera ottenga una apposita autorizzazione da parte del Ministero. In questo caso, la legge prevede, però, che il progetto sia previamente sottoposto a valutazione di impatto ambientale e che (questa volta sì) al rilascio dell’autorizzazione partecipino anche la Regione e gli Enti locali. Una logica non molto dissimile ispira, inoltre, anche la ricerca degli idrocarburi in mare. Con un’unica importante differenza: che al procedimento che mette capo al permesso e all’eventuale autorizzazione non partecipano né la Regione né gli Enti locali.
Fin qui la legge. Se, però, si passa a vedere quanto dispongono il Decreto del Ministro dello sviluppo economico e quello del Direttore generale per le risorse minerarie ed energetiche (adottati nel 2011 ed anche in questo caso senza il rispetto delle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale nella sentenza che si richiamava più sopra) si entra già in una prima fase di incertezza, in quanto si scopre che esisterebbero due tipi di permessi: quello di “ricerca” e quello di “prospezione”. Come se la legge del 2009 non avesse abrogato, sul punto, la precedente disciplina recata dalla legge n. 9 del 1991. Ma è solo un esempio. Guardiamo ora a quel che accade talvolta in via di prassi. Sul Bollettino ufficiale della Regione Abruzzo n. 68 dell’11 novembre 2011 si è reso noto che in Regione è pervenuta una istanza di permesso di ricerca denominato “Villa Mazzarosa”. Nell’avviso si afferma che detto permesso avrebbe ad oggetto “lo svolgimento di studi geologici e interpretazione di linee sismiche (…) volti a determinare l’ubicazione di un prospetto a gas nel sottosuolo” e che, sebbene nell’area interessata dalla ricerca insistano “zone protette”, “esse non saranno interessate da attività di perforazione e/o registrazione sismica”. La Regione chiede, quindi, a “chiunque” abbia interesse di esprimersi sulla opportunità di sottoporre a VIA tale progetto.
Ora, come si è detto, il permesso di ricerca di per sé non comporta alcuna perforazione. Se si vuol cercare gas o petrolio perforando, occorre che si sia in possesso di una autorizzazione ad hoc. E poiché l’autorizzazione ad hoc alla perforazione deve essere preceduta da una valutazione di impatto ambientale del progetto occorre dirlo senza mezzi termini. Dall’avviso diramato dalla Regione, però, non si capisce se si perforerà. O meglio: a leggere attentamente l’avviso si capisce che non si perforerà nelle aree protette, non che non si perforerà in assoluto. Del resto, basterebbe leggere attentamente lo studio preliminare ambientale presentato dalla società petrolifera per capire che certamente lo si farà. Ma se così è, allora, perché chiedere se sia il caso di sottoporre il progetto a valutazione di impatto ambientale? La Regione non dovrebbe neppure chiederlo. Dovrebbe farlo e basta.

Ma c’è un’altra questione, forse la principale, che vorrei chiarire. Il Ministro sostiene che non vi è alcuna possibilità di bloccare le ricerche di petrolio in mare perché ciò contrasterebbe con il diritto dell’Unione europea. Eppure il diritto europeo è chiaro al riguardo. In base ad una Direttiva del 1994, cui l’Italia ha dato attuazione nel 1996, ogni Stato membro non solo ha la facoltà di stabilire condizioni e requisiti per l’esercizio delle attività petrolifere se così giustificato da motivi di sicurezza nazionale, sicurezza pubblica, pubblica sanità, sicurezza dei trasporti, protezione dell’ambiente, tutela delle risorse biologiche e del patrimonio nazionale avente valore artistico, ecc. (art. 6), ma ha anche “il diritto di determinare (…) le aree da rendere disponibili” all’esercizio delle attività stesse (art. 2). Cosa impedirebbe, dunque, allo Stato italiano di chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere? Sarebbe sufficiente notificare alla Commissione europea questa volontà (art. 9). E l’Unione europea non potrebbe che prenderne atto.

ENZO DI SALVATORE


Dire l'agricoltura, vendere la natura

Il testo del decreto-legge sulle liberalizzazioni, pubblicato ieri sulla Gazzetta ufficiale, non contiene più l’articolo relativo alle modifiche del codice dell’Ambiente sugli idrocarburi. Ora resta in piedi solo l’art. 16, che concerne lo sviluppo delle risorse energetiche e minerarie nazionali strategiche. Gli ambientalisti, si dirà, potranno finalmente dormire sonni tranquilli. Chissà, forse. L’art. 66 del decreto, intanto, contiene alcune disposizioni che disciplinano la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola. Non è una novità assoluta, certo. Già la legge di stabilità dello scorso anno, come modificata dal decreto “Salva-Italia”, recava previsioni analoghe a quelle contenute nel provvedimento licenziato dal Governo. Tuttavia, la disciplina contenuta nella legge di stabilità risulta ora lievemente modificata. Vediamo quel che si prevede.
Ogni anno, il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali adotterà un decreto volto alla individuazione di terreni agricoli e a vocazione agricola di proprietà dello Stato e degli Enti pubblici nazionali. Questi beni saranno venduti a cura dell’Agenzia del demanio con procedura negoziata senza bando, nel caso in cui l’immobile possieda un valore inferiore a 100.000 euro, oppure mediante asta pubblica, qualora detto valore sia pari o superiore ai 100.000 euro. Lo stesso è previsto per le Regioni, le Province e i Comuni, che, anche su richiesta dei soggetti interessati, potranno vendere i beni di loro proprietà: quelli agricoli e a vocazione agricola e quelli trasferiti loro dallo Stato, ai sensi del decreto legislativo n. 85 del 2010. Se lo vorranno, anche essi potranno rivolgersi all’Agenzia del demanio e conferire a questa “mandato irrevocabile a vendere”. Quanto ricavato dalla vendita sarà destinato alla riduzione del debito pubblico. Sui beni posti in vendita, è detto nel decreto, i giovani imprenditori agricoli, e cioè coloro che hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, vanteranno comunque un diritto di prelazione.

L’art. 66 stabilisce che potranno essere venduti anche “terreni ricadenti all’interno di aree protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394”. In questo caso, l’Agenzia del demanio dovrà acquisire “preventivamente l’assenso alla vendita da parte degli enti gestori delle medesime aree”. Ai terreni venduti non potrà attribuirsi una destinazione urbanistica diversa da quella agricola prima che siano trascorsi venti anni “dalla trascrizione dei relativi contratti nei pubblici registri”.
Stando a quanto si legge all’art. 66, comma 6, del decreto, sembra doversi dire che la vendita potrà avere ad oggetto quei “terreni” (agricoli e a vocazione agricola?), che ricadano entro ogni tipo di area protetta. Questo lo si capisce dal fatto che il decreto rinvii senza specificare alcunché alla legge n. 394 del 1991 sulle aree protette. Qualora si tratti di un’area protetta regionale la decisione a vendere, previo assenso dell’Ente gestore, spetterà presumibilmente alla Regione; la quale suggerirà al Ministero quali terreni agricoli e a vocazione agricola dovranno essere indicati nel decreto ministeriale. Anche in questo caso, i giovani imprenditori agricoli avranno un diritto di prelazione sui terreni venduti. Il che lascia pensare che il loro diritto di prelazione prevarrà sul diritto di prelazione che, in relazione ad un Parco nazionale, è normalmente riconosciuto all’Ente Parco (art. 15, legge n. 394 del 1991).
Una volta acquistato il terreno, esso non potrà avere una destinazione urbanistica diversa da quella agricola. Ma ciò solo per venti anni. Dopodiché su quel terreno acquistato si potrà fare altro. Ma cosa? Nel caso delle aree protette sarebbe da ritenere che, anche dopo venti anni, il terreno non possa comunque avere una destinazione urbanistica incompatibile con le prescrizioni della legge n. 394 del 1991. Una diversa conclusione aprirebbe, infatti, ad effetti aberranti.

Il decreto, come si è detto, prevede che anche le Regioni e gli Enti locali potranno procedere alla vendita di beni di loro proprietà: quelli agricoli e a vocazione agricola e quelli trasferiti loro dallo Stato, ai sensi del decreto legislativo n. 85 del 2010. Quali sono questi beni lo dice l’art. 5 del decreto legislativo appena citato: i beni appartenenti al demanio marittimo, nonché quelli appartenenti al demanio idrico. In questo caso, tuttavia, non è chiaro se anche a detti beni si applichi il vincolo della destinazione agricola. Anche perché, eccezion fatta per l'acquacoltura, per la natura che è propria di detti beni non si vede in che senso essi potrebbero avere una destinazione agricola o una vocazione agricola. Se così fosse, però, non occorrerebbe neppure attendere venti anni. E, forse, chi comprerà farà di essi ciò che vorrà. Potrà liberamente disporre del lido del mare, della spiaggia, di un fiume, di un lago o di un torrente?

ENZO DI SALVATORE


Gli idrocarburi e il decreto-legge sulle liberalizzazioni

La bozza di decreto-legge, che circolava ieri sul web, conteneva tre articoli dedicati alla spinosa questione degli idrocarburi. Essi si proponevano: di “favorire gli investimenti per lo sviluppo delle risorse energetiche nazionali strategiche di idrocarburi” (art. 20), di modificare il comma 6 dell’art. 17 del Codice dell’ambiente (art. 21) e di semplificare e liberalizzare le attività di prospezione, di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi (art. 22). La disciplina recata in proposito dalla bozza di decreto ha destato, com’è noto, viva preoccupazione presso le associazioni ambientaliste italiane e, più in generale, presso l’opinione pubblica. Preoccupazione, questa, che, con il passare delle ore, è andata tuttavia rarefacendosi, grazie ad un comunicato diramato dal Ministero dell’Ambiente, con cui si è affermato: “le indiscrezioni relative a norme sulle trivellazioni in mare per le ricerche petrolifere che sarebbero inserite nel cosiddetto “decreto liberalizzazioni” sono prive di fondamento. A questo proposito il Ministro dell’Ambiente fa presente che la protezione del mare e delle coste è la priorità del nostro lavoro di queste ore”.

Sul sito de “Il Fatto Quotidiano” è possibile prendere visione del testo del decreto-legge sulle liberalizzazioni, licenziato dal Consiglio dei Ministri nella giornata di oggi. Alla lettura del testo varato si scopre che dei tre articoli inizialmente dedicati agli idrocarburi solo uno è stato soppresso: quello relativo alla “semplificazione e liberalizzazione delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi” (art. 22). Almeno per il momento, giacché occorrerà vedere se poi il contenuto di detto articolo non passerà sotto mentite spoglie nel decreto sulla semplificazione amministrativa, che il Governo approverà la settimana prossima. Quanto agli altri due, essi restano sostanzialmente in piedi, sebbene parzialmente modificati: il primo, e cioè quello sugli investimenti, reca solo una lieve, ma importante, modifica; il secondo, invece, risulta dimezzato.
L’attuale art. 17, infatti, reca solo due commi rispetto ai quattro di cui si componeva l’art. 20 della bozza: esso, cioè, lascia immutato il divieto di svolgimento delle attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi entro le 12 miglia marine (a partire dal perimetro esterno delle aree marine e costiere protette) e non modifica l’attuale riferimento alle linee di base (anziché di costa), necessarie per determinare le cinque miglia marine, entro le quali non è possibile esercitare le (sole) attività petrolifere.

Il problema, tuttavia, è quel che resta. L’articolo 17 stabilisce: “L’art. 6, comma 17, primo periodo del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 è sostituito dal seguente: “Ai fini della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9, da svolgersi all’interno delle acque delimitate dal perimetro delle aree protette individuate con decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare da emanarsi entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. L’elenco viene aggiornato con cadenza annuale; nel caso di istituzione di nuova area protetta restano efficaci i titoli abilitativi già rilasciati”. All’articolo 6, comma 17, sesto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, dopo le parole “stessa data” sono aggiunte le seguenti parole “in base ai quali possono essere rilasciati i provvedimenti conseguenti o comunque connessi ai titoli stessi, compresi le proroghe e il rilascio delle concessioni conseguenti a un rinvenimento a un permesso di ricerca già rilasciato”.
Ebbene, con questo articolo del decreto-legge il divieto di esercitare attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi viene circoscritto alle sole acque interne alle aree protette: esso non fa più menzione delle “aree costiere”. Questo potrebbe voler dire, ad esempio, che una riserva naturale come quella del Borsacchio (Abruzzo) non sarà più tutelata. Senza contare che, almeno per quanto riguarda l’Abruzzo, aver cancellato anche il riferimento alle aree “a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali e regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali” potrebbe – quale effetto indiretto – indebolire la già debole tutela apprestata dalla legge n. 48 del 2010 sul petrolio. C’è da chiedersi: con quali conseguenze per il costituendo Parco nazionale della Costa teatina?
L’art. 17 precisa, poi, che nel caso di istituzione di nuova area protetta resteranno efficaci i titoli abilitativi già rilasciati. Nel qual caso, se ben inteso, il divieto di esercizio di quelle attività resterà circoscritto alle sole 5 miglia marine e non già alle 12, qualora dalle 6 miglia marine in poi si esercitasse una qualsiasi attività petrolifera. Mentre, è chiaro, nessuna tutela vi sarebbe qualora, nonostante l’istituzione di una nuova area protetta, le attività concernessero il gas.
Ma non è tutto. Il divieto delle attività di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi “all’interno delle acque” delle aree protette è posto con riferimento ad aree da individuare con decreto del Ministero dell’Ambiente. Aver cancellato il riferimento alle leggi regionali comporterà che non qualunque area che la Regione riterrà meritevole di tutela sarà necessariamente interessata dal divieto. È il Ministro dell’ambiente che lo deciderà. E lo farà entro 90 giorni dall’avvenuta conversione in legge del decreto-legge da parte del Parlamento. In questo modo, al momento della conversione del decreto, i parlamentari non saranno in condizione di sapere quali aree saranno effettivamente tutelate dal divieto: essi finiranno per approvare, di fatto, una sorta di delega “in bianco”.
Infine, due parole sul secondo comma dell’art. 17. La modifica al Codice dell’ambiente, introdotta nel 2010, stabiliva che i divieti previsti dall’art. 6 si applicassero anche ai procedimenti in corso. Ciò, tuttavia, non avrebbe interessato i titoli abilitativi già rilasciati alla data di entrata in vigore della modifica stessa. Ora invece si aggiunge che anche i provvedimenti conseguenti o comunque connessi ai titoli già rilasciati – proroghe comprese – non saranno interessati dal divieto. Così come non lo saranno le concessioni conseguenti ad un permesso di ricerca di idrocarburi già rilasciato.

ENZO DI SALVATORE



Costituzione e guerra

1. La Costituzione italiana del 1947 decreta in modo irreversibile l’abbandono dell’ideologia totalitaria e guerrafondaia predicata dal fascismo e inaugura un’era nuova e rivoluzionaria rispetto al precedente assetto istituzionale. È l’avvento della liberal-democrazia, che si ricollega ai principi di matrice internazionale della libertà, della giustizia nelle relazioni tra gli Stati e del più profondo pacifismo.
In sede di lavori preparatori della Costituzione, il dibattito sulle materie di politica internazionale fu caratterizzato dall’intento (per lo più unanime) di privare lo Stato, una volta per tutte, di quella illimitata libertà di ricorrere alla forza armata. Fino ad allora ciò aveva costituito il tratto peculiare del potere istituzionale in genere: un vero e proprio jus ad bellum, conferito in capo agli organi di governo di ciascun Stato nazionale. Il condiviso sentimento di condanna di questa indiscriminata potestà, che aveva trascinato la Nazione nella più sanguinosa delle guerre, convinse l’Assemblea Costituente ad approvare l’art. 11 della Costituzione. In esso si è proclamato, anzitutto, il ripudio della guerra di aggressione. Detto principio costituisce uno dei capisaldi dell’ordinamento costituzionale italiano e traduce sul piano normativo interno allo Stato il valore supremo del mantenimento della pace e della giustizia tra le Nazioni. In questa prospettiva, l’Italia è tenuta a non muover guerra ad altri Stati. Un divieto che deriva sì dalle prescrizioni costituzionali appena ricordate, ma anche dal diritto internazionale. Tant’è che si è sottolineato come l’introduzione del principio in Costituzione fosse proprio dovuta all’intenzione dello Stato italiano di aderire all’ONU (il cui Statuto aveva autorevolmente sancito il perseguimento della pace e il divieto dell’uso della forza come principi fondamentali del diritto internazionale). Da un lato, dunque, la Costituzione italiana; dall’altra, il diritto internazionale: sul piano interno, lo Stato deve perseguire la pace e attivarsi per la sua conservazione, astenendosi dall’utilizzare la forza armata; sul piano internazionale, in quanto membro delle Nazioni Unite, esso ha l’obbligo di rispettare le disposizioni dello Statuto costitutivo e, in special modo, quanto posto all’art. 2, par. 4, che vieta, appunto, il ricorso alla forza armata. Tutto questo, com’è noto, non ha, però, impedito che negli ultimi trent’anni l’Italia restasse coinvolta in quelle che (forse con troppa disinvoltura) sono state definite “missioni di pace” o “interventi a fini di umanità”: missioni e interventi che, di fatto, presuppongono e determinano il ricorso alle armi.

2. Proprio al fine di accertare la legittimità della partecipazione italiana alle operazioni militari, ci si interroga sulla nozione di “guerra” accolta dall’ordinamento costituzionale e dallo Statuto delle Nazioni Unite. Innanzitutto, è difficile dare una definizione che esemplifichi, una volta per tutte, gli elementi costitutivi del fenomeno. Riprendo a tal riguardo le parole del von Clausevitz, per il quale la guerra è “un camaleonte che in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura”; vale a dire che riesce a mutare le sue modalità di manifestazione seguendo l’evoluzione del tempo. In questo senso, il diritto non può che prendere atto delle ragioni che spingono gli Stati all’aggressione per mezzo delle armi, a prescindere dalle forme utilizzate. Dal dibattito avutosi in Assemblea Costituente emerge con chiarezza la volontà di “bandire qualunque forma massiccia di violenza armata”, con il proposito di estendere il divieto della guerra a qualsivoglia ipotesi di utilizzo delle armi.
La consapevolezza del Costituente circa l’inopportunità di racchiudere il fenomeno in esame in una qualunque definizione schematica e astratta trova riscontro anche nel riferimento che l’art. 11 fa alla guerra intesa come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, laddove per “offesa” è da intendersi l’utilizzo della forza armata che leda l’indipendenza politica di un altro Stato o la sua “integrità territoriale” ovvero l’uso delle armi finalizzato a “ imporre con la forza ad un altro popolo, un regime o una struttura di governo che esso non desidera avere”. Ciò comporta che oggetto del divieto costituzionale sia non solo la guerra intesa come aggressione armata ai danni di uno Stato, bensì anche qualunque altra azione coercitiva mirata a soverchiare l’autodeterminazione, l’autonomia e l’indipendenza di altri Stati.
Per ciò che concerne la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il divieto si estende a qualunque ipotesi di contrasto tra Stati, essendo negata la facoltà di muover guerra ad altri per perseguire interessi di qualsiasi natura, siano essi economici, giuridici o meramente politici.
Peraltro, nella Carta Onu il termine “guerra” compare al primo punto del Preambolo, ove si enuncia l’intenzione di bandirne definitivamente l’uso. Qui e più avanti si fa riferimento all’uso della “forza” proprio al fine di ricomprendere non solo la guerra propriamente detta, ma anche qualunque ipotesi di violenza perpetrata a mezzo delle armi, dalla quale derivino gli stessi effetti.

3. La rinuncia alla guerra, in qualunque sua forma di manifestazione concreta, non può essere intesa come radicale rinuncia alle armi. Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano è quello del perseguimento e del mantenimento della Pace, da cui deriva l’impegno degli organi di governo di salvaguardare l’equilibrio e la stabilità dello Stato, sia sul piano interno sia su quello esterno. In questo secondo caso, detto dovere si traduce nella legittimità della guerra “difensiva”, quale eccezione al generale ripudio della guerra. È sufficiente leggere quanto stabilisce l’art. 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. In tal senso, lo Stato è tenuto a predisporre un apparato militare stabile sul proprio territorio, al fine di respingere tempestivamente un attacco bellico altrui; i cittadini, per parte loro, dovranno ricorrere alle armi in caso di aggressione armata allo Stato. Tuttavia, proprio la legittimità costituzionale della guerra per scopi difensivi ha ingenerato, nel corso degli ultimi trent’anni, ripetuti fraintendimenti sul punto. Si prenda, ad esempio, il caso della partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia, effettuata sulla base della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle N.U. n. 1973/2011: qui sarebbe arduo sostenere che essa trovi copertura attraverso l’art. 52 della Costituzione. Come difficile sarebbe sostenere che siffatta partecipazione si configuri in termini di “legittima difesa”, ai sensi dell’art. 51 della Carta Onu, ove si parla espressamente di “attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”. Da questo punto di vista, non può dirsi che l’espressione “legittima difesa” – che autorizza gli Stati ad intervenire con le armi – ricomprenda persino l’ipotesi della “difesa preventiva”. Una simile conclusione – che ha portato taluni a ritenere che si possa ricorrere all’uso delle armi non già per muover guerra, bensì per “portare la pace” laddove questa sia anche solo in pericolo – risulta incompatibile con il principio pacifista e con il divieto sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta Onu.

4. Gli argomenti utilizzati per legittimare l’intervento militare in Libia si fondano proprio sulla pretesa compatibilità della risoluzione n. 1973/2011 con la Costituzione italiana e specificamente con il suo art. 11, in virtù del quale l’Italia può limitare la propria sovranità in favore di quelle organizzazioni internazionali che assicurino “la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Nella seduta della Camera dei deputati del 24 marzo 2011, il Ministro della Difesa on. La Russa ha sostenuto che l’accoglimento della citata risoluzione costituirebbe un atto dovuto in ossequio a quanto sancito dalla Costituzione, che impone il rispetto degli impegni assunti in ambito internazionale. In tal senso, i provvedimenti adottati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avrebbero carattere derogatorio rispetto al principio costituzionale di ripudio della guerra.
Una simile lettura dell’art. 11 Cost. non può essere condivisa. Il principio del ripudio della guerra è un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, che non può essere derogato in nessun caso, neppure sulla base degli impegni assunti dall’Italia in ambito internazionale. Le limitazioni di sovranità, cui si riferisce l’art. 11 Cost., presuppongono, infatti, che si mantenga intatto il principio del ripudio della guerra: la partecipazione dell’Italia ad organizzazioni internazionali appare legittima solo a condizione che si rispetti detto principio, in ossequio allo spirito pacifista che anima l’intera Costituzione. Del resto, il rapporto tra il diritto internazionale e il diritto dello Stato non può essere inteso come un rapporto di assoluta e incondizionata prevalenza del primo sul secondo. Detta prevalenza – come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza – non può interessare il novero dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. Principi e diritti assolutamente intangibili, che si configurano quali “controlimiti” alla prevalenza del diritto internazionale e, dunque, alle stesse limitazioni di sovranità. Per questa ragione si sarebbe dovuto concludere che la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia fosse, in realtà, illegittima.

RACHELE COCCIOLITO


La riforma dell'apprendistato: l'illusione di un contratto a tempo indeterminato per tutti

Il contratto di apprendistato è stato oggetto della recentissima riforma recata dal d.lgs. n. 167/2011, che entrerà in vigore il 25 ottobre 2011. In questa sede, si vuole commentare, soprattutto, l’art. 1 di tale decreto, ai sensi del quale “l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”.
Quale miglior incipit ci si poteva aspettare nella attuale situazione del mercato del lavoro, affetta da una precarietà congenita, che impedisce ai lavoratori – soprattutto i più giovani – di avere sicurezze? Proprio ieri il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Sacconi, nella trasmissione televisiva Ballarò ha elogiato la riforma qui in discussione - e non poteva essere altrimenti, essendo lo stesso Ministro il promotore del decreto delegato –, sostenendo che, grazie alle innovazioni normative recate, il contratto di apprendistato diventerà il paradigma del contratto di lavoro con cui i giovani si affacceranno nel mondo delle professioni. Esso continua, infatti, ad essere un c.d. contratto a causa mista (che unisce una prestazione di lavoro ad un’attività volta alla formazione dell’apprendista), che fa evolvere il lavoratore nella propria professionalità. Inoltre, visti i benefici previdenzial-fiscali e di (iniziale e temporaneo) sotto-inquadramento retributivo del lavoratore (v. art. 2, lett. c), gli imprenditori saranno ben disposti a ricorrere a tale tipologia contrattuale nel momento in cui daranno luogo a nuove assunzioni. Uniti questi incentivi alla disposizione precedentemente richiamata, che configura il contratto di apprendistato come contratto di lavoro a tempo indeterminato, si accendono gli entusiasmi! Eppure, basta leggere solo qualche riga più in là per spegnere ogni aspettativa. Ai sensi dello stesso art. 1 (lett. m), infatti, è prevista la “possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione ai sensi di quanto disposto dall’articolo 2118 del codice civile. Se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato”. E – si chiederanno i più – che significa? Significa che è vero che il datore di lavoro, durante il periodo di formazione (che può durare per un periodo variabile, a seconda della tipologia di apprendistato), non può licenziare il lavoratore, ma, appena questo periodo finisce, l’imprenditore può porre nel nulla la disposizione di principio secondo cui il contratto di apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato, semplicemente esercitando il recesso nel termine prescritto! E, allora, speriamo tutti che i datori di lavoro diventino sbadati! Se, infatti, dimenticheranno di esercitare il recesso a tempo debito, il contratto di apprendistato si trasformerà in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Effettivamente, l’unico dato che viene aggiunto dalla presente riforma è questo effetto di “dimenticanza”, ma – tutti converranno – non è così che si migliorano le pessime condizioni dell’attuale mercato del lavoro. Si badi, peraltro, che la possibilità di recesso alla fine del periodo di formazione non è circondata di alcuna tutela in favore dell’apprendista: non deve ricorrere alcuna particolare condizione, infatti, al fine di poter esercitare tale facoltà da parte del datore di lavoro. Ma allora che senso ha affermare, in linea di principio, che il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato, se il datore di lavoro ha la facoltà di recesso ad nutum?
Il contratto di apprendistato, dunque, di fatto, non è (un unico) contratto a tempo indeterminato (come sembrerebbe far intendere l’art. 1 del decreto delegato), bensì diventa costituito da due contratti: il primo, di apprendistato in senso stretto, che dura finché è in atto la formazione (e nel corso del quale non vi è possibilità di licenziamento da parte del datore di lavoro, salvo giusta causa o giustificato motivo); un secondo contratto – per così dire “ordinario” – di lavoro subordinato a tempo indeterminato la cui efficacia è subordinata alla condizione che il datore di lavoro non eserciti il recesso per tempo.

PAOLO COLASANTE


Tornare a discutere di riforme istituzionali

Mentre l’economia arranca e gli indignados scendono in piazza, la classe politica nazionale e quella nostrana, in special modo, preferiscono intrattenere un dialogo fitto e autoreferenziale sulle alleanze e le strategie da mettere in campo per i prossimi appuntamenti elettorali. Non tutti, ovviamente. I più illuminati spendono persino qualche parola sagace sulle riforme strutturali necessarie al rilancio dell’economia, rifiutando l’idea che si debba tamponare la crisi procedendo a colpi di mannaia. A parere di alcuni, infatti, occorrerebbe soprattutto investire, anziché effettuare tagli orizzontali alla spesa pubblica. Salvo poi tornare a ragionare di tagli di ogni tipo sul versante istituzionale: ora in relazione alle province, ora alla pletora degli enti inutili; ora con riferimento alle indennità delle cariche pubbliche, ora al dimezzamento del numero dei parlamentari. Un insieme di tagli anch’essi orizzontali, in fondo; che paiono dettati più dall’antipolitica che avanza piuttosto che da un disegno complessivo realmente consapevole. Quasi che in campo economico debba aversi una diagnosi esatta e in campo istituzionale no. Eppure le due cose stanno assieme.
“Il dimezzamento del numero dei parlamentari” – ha affermato di recente Walter Veltroni – “è necessario per far funzionare meglio la democrazia”. Ciò comporta evidentemente anche una riduzione dei costi della politica. Per questo in Parlamento giacciono diverse proposte di legge, che vorrebbero andare in questa direzione. Il resto si vedrà: è tutto scritto nella brochure “L’Italia di domani”, che il PD ha preparato e diffuso in rete. Sessanta pagine circa, di cui appena tre dedicate al problema delle riforme istituzionali. Sul versante opposto, intanto, il Ministro Calderoli propone una grande riforma istituzionale, che vorrebbe interessare la riduzione del numero dei parlamentari, l’istituzione del Senato federale e la forma di governo. Il sen. Gasparri assicura che entro metà dicembre il disegno di legge relativo approderà in aula al Senato.
A mio sommesso parere, la questione economica è strettamente connessa con quella delle riforme istituzionali. Per questa ragione, credo si debba andare fino in fondo e non procedere intervenendo qua e là, come propone di fare il PD nella sua brochure. Questo non vuol dire che il disegno di legge presentato da Calderoli sia particolarmente soddisfacente. Tutt’altro. Sebbene esso si proponga di modificare in più punti la Costituzione, a me non pare che colga il nocciolo del problema. Ovvero: quello del federalismo. In tal senso, l’esperienza che si è avuta sinora in Italia non può dirsi certo edificante, visto che dopo la riforma costituzionale del 2001 la Repubblica è divenuta ancor più centralista di quanto non fosse prima. Basti pensare alla questione del riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni e a quella delle funzioni amministrative, attribuite in prima battuta ai Comuni. Questioni che hanno conosciuto un intervento massiccio da parte del Parlamento e del Governo, che hanno impegnato sovente la Corte costituzionale in una autentica riscrittura del Titolo V della Costituzione e che attualmente sollevano un problema non altrimenti eludibile: come esercitare quelle funzioni se non si hanno i soldi a disposizione? Ma evidentemente l’esperienza non sempre insegna. Provo, allora, ad avanzare alcune proposte. Primo: si riduca il numero dei deputati e si trasformi il Senato della Repubblica in una Camera delle Regioni, composta di delegati regionali e non di eletti. Ciò avrebbe immediati riflessi sulla questione dei costi della politica (in quanto i delegati sarebbero già pagati dalle Regioni) ed aprirebbe ad una più proficua collaborazione tra il livello statale e quello regionale già a partire dalla sede legislativa, riducendo, in questo modo, forse anche il contenzioso costituzionale. In questa prospettiva – di superamento del c.d. “bicameralismo perfetto” – la Camera delle Regioni (o il Senato federale, se così più piace) potrebbe avere un ruolo non molto dissimile da quello rivestito dal Bundesrat tedesco, e, cioè, di collaborazione all’esercizio della funzione legislativa dello Stato. Ciò potrebbe estrinsecarsi essenzialmente in due modi: in ordine a talune leggi, approvando o respingendo quanto deliberato dalla Camera dei deputati; in ordine alle altre, chiedendo (eventualmente) che la Camera dei deputati effettui una nuova deliberazione, che tenga conto degli emendamenti suggeriti dai delegati regionali. Nel primo caso, la legge non entrerebbe in vigore se non con l’assenso necessario della Camera delle Regioni; nel secondo caso, la legge entrerebbe in vigore solo se la Camera dei deputati approvi nuovamente la delibera legislativa a maggioranza assoluta. Secondo: si elimini la competenza legislativa concorrente. A che serve se poi lo Stato non si limita a porre una disciplina dei principi fondamentali della materia, ma si spinge fin nel dettaglio della stessa? Molte materie, come si è detto, potrebbero essere disciplinate in Parlamento con la collaborazione della Camera delle Regioni. Le altre potrebbero essere, invece, in parte, devolute alla competenza esclusiva delle Regioni e, in parte, attratte entro un nuovo tipo di competenza, che conduca lo Stato e la Regione ad una sorta di competizione. Chi sa esercitare meglio una competenza può legiferare: lo Stato dovrebbe recare una disciplina standard della materia; e la Regione potrebbe ad essa derogare qualora riuscisse a varare una normativa più efficace di quella statale. Ovvio che tutto questo avrebbe comunque un costo. Così come un costo avrebbe finanche l’esercizio di funzioni amministrative attribuite agli Enti locali. Con ciò si passerebbe al terzo punto: si porti a termine il “federalismo fiscale” e si sancisca, inoltre, in Costituzione il principio in base al quale la spesa deve essere collegata all’esercizio della funzione: oltre a quanto già previsto dall’attuale art. 119 Cost., e anche in virtù di quello che, con ogni probabilità, in futuro stabiliranno le disposizioni costituzionali sul pareggio di bilancio, occorrerebbe, infatti, chiarire che qualora lo Stato effettui il trasferimento delle funzioni o qualora attragga a sé l’esercizio di quelle spettanti alle Regioni e agli Enti locali debba altresì accollarsi la spesa necessaria all’esercizio delle stesse. Quarto: si proceda, infine, ad una razionalizzazione del sistema delle autonomie locali ed anche ad un riordino del sistema delle conferenze. Punti, questi, che lambiscono ovviamente solo in parte la complessa problematica delle riforme istituzionali. Ma almeno si avvii il dibattito e si sappia rinunciare, in un momento così drammatico per tutti, a discutere di strategie elettorali e di inezie simili.

ENZO DI SALVATORE


La Corte europea liberalizza le trasmissioni sportive sul territorio dell'Unione

Il “decreto sviluppo” e gli idrocarburi: un colpo al cerchio e uno alla botte
La scongiurata elusione dell’esito referendario sull’affidamento diretto dei servizi pubblici locali

1. La sentenza n. 199/2012, adottata dalla Corte costituzionale il 20 luglio scorso, presenta molteplici aspetti di interesse e verrà probabilmente ricordata per aver evitato che il legislatore eludesse il risultato del referendum tenutosi il 12 e 13 giugno 2011. Tuttavia, ciò che interessa sottolineare in queste brevi note non è il risultato ottenutosi con questa decisione, bensì la via che si è seguita per giungervi, che – occorre sottolinearlo sin da subito – è stata quella del giudizio in via principale, nell’ambito del quale le Regioni sarebbero limitate quanto ai parametri di costituzionalità invocabili. Per poter andare oltre, occorre preliminarmente riepilogare in breve i fatti che hanno condotto alla sentenza in parola.
Nelle date su indicate, il corpo elettorale si pronunciava sull’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il quale limitava fortemente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali. A soli 23 giorni dall’esito della consultazione referendaria, veniva emanato il d.l. n. 138/2011 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge 14 dicembre 2011, n. 148), che all’art. 4 recava l’ “adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”. Nonostante la rubrica, la ratio ispiratrice della normativa era assolutamente analoga a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008. L’elusione dell’esito referendario ha, dunque, indotto diverse Regioni a proporre impugnazione avverso la nuova regolazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali; impugnazione, che la Corte ha accolto con la sentenza in commento, in quanto ha condiviso le censure regionali secondo cui la norma impugnata avrebbe nella sostanza riprodotto la norma oggetto dell’abrogazione referendaria. Anzi, la Corte ha ritenuto che la nuova normativa “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi” ed, inoltre, “riproduce, ora nei principi, ora testualmente, talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008”.

2. Si è detto in apertura che ciò che interessa commentare in questa sede non è tanto l’esito cui la Corte è arrivata – che, peraltro, sia detto per inciso, è apprezzabile – quanto la via processuale con cui vi è giunta. La questione, infatti, è arrivata all’attenzione della Corte costituzionale mediante alcuni ricorsi regionali, che hanno dato avvio ad un giudizio in via principale, ed è stata risolta sulla base dell’art. 75 Cost. (Considerato in diritto, 5.2.3.: “Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 201, (…), per violazione dell’art. 75 Cost.”). Tuttavia, è ben noto che, secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza costituzionale, le Regioni possano agire in via principale solo per dedurre la lesione delle proprie competenze costituzionalmente garantite e non, invece, invocando come parametro norme costituzionali estranee al Titolo V della Costituzione, a meno che la violazione di quest’ultime non ridondi anche in una violazione del riparto delle competenze. Nonostante balzi immediatamente all’evidenza che l’art. 75 della Costituzione, che disciplina il referendum abrogativo, non attiene al riparto delle competenze, la Corte ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale comunque ammissibile.
Invero, il Giudice delle leggi, richiamato il proprio indirizzo giurisprudenziale, ritiene che le condizioni di ammissibilità delle censure sono soddisfatte, perché “le ricorrenti assumono che, con l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che riduceva le possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle Regioni e regolamentare degli enti locali, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si sono riespanse. (…) Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (…), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali”.
L’argomentazione costituisce chiaramente un “artificio”, con cui la Corte evita di dover dichiarare inammissibile la censura proposta, riuscendo a giungere ad una pronuncia di merito che tuteli l’esito referendario. E, per dimostrare che si tratta effettivamente di un (utile) “artificio”, basta richiamare alla mente la sent. n. 325 del 2010. Lì la Corte si pronunciava propria sulla legittimità costituzionale  dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (poi abrogato dal referendum e ora sostanzialmente ripreso dalla nuova normativa oggetto di impugnazione) e riteneva che “la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (…) va ricondotta (…) all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ‘tutela della concorrenza’”. Dal che consegue che “la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza” (Considerato in diritto, 7.).
Orbene, se è vero che il nuovo art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 è sostanzialmente analogo al più volte richiamato art. 23-bis (abrogato col referendum), se ne deve dedurre, mutatis mutandis, che il giudizio di prevalenza della competenza statale su quelle regionali e locali formulato nella sentenza n. 325/2010 in riferimento a quest’ultima disposizione debba valere anche per la prima. Ma se la competenza statale sulla “tutela della concorrenza” è prevalente rispetto a quella residuale sui “servizi pubblici locali”, non è chi non veda come non possa mai prodursi alcuna “possibile ridondanza” sulle competenze regionali, per via del ripristino della normativa abrogata dal referendum. Infatti, una “ridondanza” vi può essere quando sull’oggetto di disciplina permane la potestà legislativa regionale; permanenza che, però, in tale caso può escludersi, una volta affermata la prevalente riconducibilità del nucleo essenziale della disciplina alla competenza esclusiva statale sulla “tutela della concorrenza”.
Nel nostro ordinamento, peraltro, se un oggetto di disciplina appartiene alla competenza legislativa esclusiva statale, il solo fatto che il legislatore nazionale rinunci ad esercitare su di essa la propria potestà non comporta l’assegnazione della medesima alle Regioni, né tale evenienza può verificarsi in presenza di un “vuoto” normativo, come quello apertosi a seguito della consultazione referendaria.
Per questa parte, dunque, il percorso argomentativo della Corte soffre di un eccessivo attaccamento al precedente consolidato orientamento, che la porta, pur di riuscire ad arrivare alla pronuncia di merito, ad affermare quanto in precedenza negato, nonostante in più punti della decisione essa stessa si richiami proprio alla sentenza n. 325 del 2010.
Dalla vicenda non può che trarsi la conclusione che l’asimmetria tra Stato e Regioni nell’invocazione dei parametri costituzionali risulta spesso essere un anacronistico retaggio del primo regionalismo, che stride con la posizione assegnata alla Regioni dal nuovo Titolo V, nel quale scompare ogni altra asimmetria, come il controllo di merito sulle leggi regionali e i diversi regimi di controllo preventivo (sulle leggi regionali) e di controllo successivo (su quelle statali).
Le forzature che talvolta, come in questo caso, accompagnano l’affermazione di una lesione indiretta delle competenze regionali potrebbero essere evitate se la Corte mutasse il proprio orientamento giurisprudenziale, agevolando il suo stesso lavoro.
D’altronde, non può negarsi che, nel caso di specie, i ricorsi regionali hanno assolto un’indubbia funzione – per così dire – di “igiene costituzionale”, se sol si pensi che per il loro tramite non è stato posto nel nulla l’esito del referendum del 12-13 giugno 2011, a prescindere da ogni giudizio sulla meritevolezza, o meno, della scelta lì effettuata.
Un revirement della Corte sul punto gioverebbe anche in altre occasioni, in quanto renderebbe possibile un tempestivo esercizio del controllo di costituzionalità sugli atti statali (senza dover attendere l’instaurazione di un giudizio, nel quale sollevare la questione in via incidentale), ma soprattutto riuscirebbe ad “illuminare” alcuni “coni d’ombra” della nostra giustizia costituzionale. Si riuscirebbero, cioè, a rendere più agevolmente giustiziabili alcune discipline, che raramente potrebbero per altra via giungere all’attenzione dello scrutinio di costituzionalità della Corte (ad esempio, la legge elettorale nazionale). 

PAOLO COLASANTE


Con sentenza del 4 ottobre 2001, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sul problema della trasmissione delle partite di calcio della Premier League (equivalente della nostra serie A) da parte di gestori di pub e ristoranti inglesi

La Football Association Premier League (FAPL) è la società che gestisce il massimo campionato di calcio inglese. Essa stabilisce il calendario delle partite e le squadre ammesse e gestisce la vendita dei diritti alla trasmissione delle partite alle piattaforme satellitari e digitali (nel caso di specie sky .
Suddetta vendita, in tutti i paesi dell’UE da parte di ogni lega nazionale calcistica, è stata effettuata sulla base degli accordi con emittenti nazionali (ad esempio, in Italia la vendita ha riguardato sky Italia e Mediaset).
Le aziende televisive che acquistano i diritti impongono alla Lega calcistica nazionale  l’esclusiva sugli stessi, al fine di non subire eccessiva concorrenza ed aumentare gli abbonati, i quali potranno vedere le partite solo acquistando un pacchetto con l’emittente tv. Nel Regno Unito, altresì, è la stessa normativa nazionale a prevedere la vendita dei diritti ad emittenti nazionali.

Il problema si è posto nel momento in cui taluni gestori di pub e ristoranti inglesi, per abbattere i costi, hanno iniziato a trasmettere le partite della Premier League mediante decoder e schede di trasmissione acquistate in Grecia, con l’unico svantaggio del commento in lingua greca, ma con evidenti vantaggi in termini di costi, in quanto, come noto, in Italia e in buona parte dell’Unione europea, le emittenti chiedono, a chi intende usufruire di trasmissioni pay-tv  in locali pubblici, un’aggiunta rispetto all’abbonamento base, in considerazione delle maggiori entrate potenziali per i gestori derivanti dal poter inserire nei servizi resi al cliente la trasmissione dei match di calcio inglese.

La Corte con la sua  sentenza ha affermato che un sistema di licenze per la ritrasmissione degli incontri di calcio, che riconosce agli enti di radiodiffusione un’esclusiva territoriale per Stato membro e che vieta ai telespettatori di seguire tali trasmissioni con una scheda di decodificazione di altri Stati membri, è contrario al diritto dell’Unione.
Essa, infatti, ha sostenuto che una normativa nazionale che vieti l’importazione, la vendita o l’utilizzazione di schede decodificate straniere è contraria alla libera prestazione dei servizi e non può essere giustificata né con riguardo all’obiettivo della tutela dei diritti di proprietà intellettuale, né dall’obiettivo di incoraggiare l’affluenza del pubblico negli stadi.
Una sentenza che può dirsi rivoluzionaria, in quanto, secondo i principi espressi dalla Corte di Giustizia, si potrebbe configurare la vendita, da parte delle leghe nazionali, dei diritti televisivi su tutto il territorio dell’Unione, con conseguente possibilità di una trattativa, da parte delle leghe nazionali, autenticamente europea tra tutte le emittenti, nella quale l’utente potrà scegliere se vedere la partita nella propria lingua (a maggior costo) oppure in lingua straniera (ma a prezzi più accessibili).
Una valvola di sfogo di un sistema per troppi anni ingessato e chiuso nei recinti nazionali.

CARLO ALBERTO CIARALLI

Crisi dell'euro, crisi della politica

Non più di 20 giorni fa, Angela Merkel ha dichiarato: “Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa; la moneta unica è l’unica garanzia dell’unità europea”. Queste parole, pronunciate dalla Cancelliera tedesca dinanzi al Bundestag, offrono qualche spunto per riflettere sulle ragioni della crisi, che, da qualche tempo, colpisce tutti noi. Una crisi che, prima ancora di essere economica e finanziaria (almeno per i Paesi dell’Eurozona), è crisi della democrazia rappresentativa; disfacimento di un modello rimasto per cinquant’anni in bilico tra grandi speranze e cocenti delusioni. Come sta a provare - semmai ve ne fosse bisogno - la lettera inviata dalla BCE al Governo italiano il 5 agosto scorso e resa pubblica oggi dal Corriere della sera: un vero programma politico. Ma procediamo con ordine.
Nel 1946, nel celeberrimo discorso di Zurigo sulla “cortina di ferro che si stendeva sull’Europa da Trieste a Stettino”, Winston Churchill rilanciò l’idea della creazione degli Stati Uniti d’Europa. Poi, nei primi anni ’50, giunse il primo stop all’unificazione europea; quando, cioè, i sei membri delle Comunità europee di allora – in ragione dei timori nutriti dagli USA per la nascita di un terzo polo militare parallelo a quello della Nato – abbandonarono l’idea di dar vita alla CED (Comunità Europea di Difesa). Un progetto a dir poco ambizioso, che avrebbe sospinto l’Europa verso un processo di maggiore federalizzazione; un sistema indirizzato all’integrazione delle economie e alla nascita di una difesa comune; un blocco capace di giocare un ruolo di primo piano nella contesa mondiale tra Nato e Patto di Varsavia.
Non è un caso che negli USA tra le principali competenze della Federazione vi sia proprio quella della “difesa comune”; la quale, unitamente alla politica estera (oggi in Europa quasi inesistente o ancora carente), costituisce normalmente uno dei tratti peculiari del federalismo (classico).
L’idea di Pleven, federalista convinto, di dotare l’Europa di una difesa comune (costituita dagli eserciti degli Stati membri) non trovò sponde convincenti; ed anzi venne rigettata con forza dalla Francia e dalla Germania, con l’argomento che la CED avrebbe potuto inasprire i rapporti tra gli Stati durante la guerra fredda. Sarebbe stato meglio – si disse – procedere alla sola integrazione delle economie. Una scelta di cui oggi paghiamo l’alto prezzo.
L’incapacità della classe politica di allora di creare un soggetto autenticamente politico avrebbe portato nel ventennio successivo alla c.d. “crisi della sedia vuota”: da quel momento in poi, in ragione delle resistenze opposte dagli Stati membri – gelosi della propria sovranità – il processo di integrazione europea si sarebbe avvitato su se stesso.

In un libro del 1971, dal titolo “Europa Federazione incompiuta”, Walter Hallstein scriveva: “ma quali sono gli oggetti dell’unione politica? La politica di difesa e la politica estera comune sembrano accettate da tutti coloro che approvano l’idea fondamentale dell’unità politica ”.
Con queste poche parole Hallstein sottolineava come il principale ostacolo all’unificazione politica fosse il mantenimento in capo agli Stati membri della politica estera e della difesa. Parole davvero profetiche, visto che quarant’anni dopo la situazione è rimasta pressoché immutata.
Nell’affaire Libia, l’Europa, una volta ancora, si è frantumata in una miriade di posizioni; e così è stato ancor più recentemente, in merito al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in seno all’ONU.
In relazione all’intervento militare in Libia, si è visto come, senza voler indagare le dinamiche e gli interessi geo-economici ad esso sottesi, gli Stati membri abbiano percorso strade differenti. Se la Germania ha assunto posizioni iniziali di prudenza, la Francia è risultata essere la potenza maggiormente “interventista”, prima fra tutte a riconoscere il Consiglio nazionale provvisorio degli insorti. Al suo fianco la Gran Bretagna; mentre l’Italia, con buona pace degli accordi stretti con la Libia, ha, ad un tempo, sostenuto l’intervento militare fornendo le basi per le operazioni aeree e praticato una politica di ricercata equidistanza tra le parti, anche in ragione dei rapporti intrattenuti fino a quel momento con Gheddafi.
Sul caso OLP, le posizioni oscillano tra il no secco di GB e USA ed il possibilismo franco-tedesco, incline ad un riconoscimento di uno status non molto dissimile da quello goduto da Città del Vaticano: una presenza in seno all’ONU in qualità di Osservatore permanente.
Quello della politica estera e della difesa europea è il principale nodo da sciogliere; non certo l’unico. Perché l’arrivo del nuovo millennio ha portato con sé inediti problemi. In primo luogo l’allargamento dell’Unione europea a 27 Stati, giacché alle molte difficoltà esistenti in seno all’Europa dei 15 se ne sono aggiunte altre, determinate dalle differenze strutturali (economiche, politiche e giuridiche) proprie degli Stati ex satelliti dell’URSS. Sarebbe stato più prudente favorire un loro ingresso graduale nell’Unione europea. E forse – in luogo di una cooperazione rafforzata – sarebbe stato più saggio istituire una Federazione tra gli Stati membri di più lungo corso (sciogliendo in questo modo i nodi irrisolti dell’integrazione politica) e favorire, al contempo, un sistema di tipo confederativo per gli Stati candidati all’ingresso nell’Unione. Un’Europa a due velocità. Questa volta sì.

Ma i nodi irrisolti restano tali. E riguardano proprio la democrazia, cui si faceva cenno più sopra. Il Parlamento europeo, i cui membri sono eletti a suffragio universale e diretto, è dotato di scarsissimi poteri, solo in parte accresciuti dal recente Trattato di Lisbona. Non è un caso che detto Trattato abbia inteso rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali e, cioè, colmare – almeno in parte – il c.d. “deficit democratico”. Perché l’Unione europea resta – soprattutto agli occhi dei cittadini – un sistema di burocrati e tecnocrati, ove l’unico organo davvero rappresentativo non ha voce in capitolo in ordine alle politiche che l’Unione intende perseguire. Anche qui: un autentico soggetto politico (federale) dovrebbe porre al centro del suo sistema non tanto (o non solo) l’economia, ma (soprattutto) la politica. Il fallimento della Costituzione europea prova come questa strada sia assolutamente ardua da praticare. I referendum di Francia e Olanda hanno dimostrato quanto diffuso sia il sentimento antieuropeista; forse anche in ragione della distanza che corre tra la vita quotidiana del cittadino e le decisioni prese dalle Istituzioni dell’Unione. Un vuoto che il principio di sussidiarietà non può colmare se non in parte. Un senso di estraneità che apre a facili giustificazioni e che porta la classe politica nazionale sovente a dichiarare: “sono misure richieste dall’Europa”. Come se in Europa non ci fossimo anche noi. Come se vi fossero ancora aspetti della vita non colpiti dai provvedimenti dei tecnocrati dell’Unione. Anche per questo, forse, si auspica da più parti un ritorno al localismo.

Ad oggi, l’unica vera unificazione effettivamente realizzatasi è quella monetaria, grazie all’introduzione della moneta unica. L’euro, i suoi tassi, la politica monetaria, sono gestiti dalla Banca centrale europea, di proprietà delle banche nazionali, a loro volta di proprietà (spesso se non soprattutto) di privati. Ma una moneta che non sia accompagnata da una pianificazione industriale e commerciale comune è un mero strumento in balia delle fluttuazioni e degli scossoni dei mercati. Il progetto di moneta unica mirava a creare un polo economico forte da contrapporre al dollaro statunitense, capace di proliferare nel mondo con l’utilizzo – negli scambi commerciali anche tra Paesi extraeuropei – dell’euro in luogo del dollaro. Questo progetto, ambizioso quanto importante, è (ad oggi) naufragato sotto le ineliminabili contraddizioni sottese all’Unione europea. Non può, infatti, divenire egemone ed affermarsi una moneta gestita da tecnocrati, ove la guida politica risulti assente o debole, imbrigliata nella ricerca di estenuanti mediazioni tra gli Stati membri.
Capisaldi di un sistema statuale, o nel caso di specie federale, sarebbero la politica estera e la difesa comune, l’adozione di una Costituzione europea (vera e non di facciata), l’introduzione di un sistema che accordi al Parlamento europeo poteri decisionali sulle politiche dell’Unione (in materia infrastrutturale, economica, commerciale, sanitaria e previdenziale, ecc.). Un sistema cui al momento si cerca solo in parte di ovviare attraverso il ricorso alla procedura legislativa ordinaria (ex procedura di codecisione). Ma è solo un modo di temporeggiare, di prendere tempo. Perché presto l’Unione europea si troverà di fronte ad un bivio: accettare il fallimento di cui parla oggi Angela Merkel oppure adottare un sistema istituzionale, che sia autonomo politicamente ed anche autenticamente federale.

CARLO ALBERTO CIARALLI


Regno Unito e Unione Europea: lo European Union Act 2011

Negli ultimi mesi, il Parlamento inglese è stato impegnato a discutere l’approvazione di un documento di fondamentale importanza per l’assetto dei rapporti tra Regno Unito e Unione Europea: lo European Union Act, che è giunto alla fase finale ricevendo il Royal Assent il 19 luglio 2011, dopo mesi di “ping-pong” tra le due Camere.
L’ultima decisione del Parlamento in materia risale allo European Communities Act del 1972, che introdusse nel sistema giuridico inglese un principio importantissimo: quello della diretta applicabilità del diritto comunitario. L’art. 2 dell’ECA recita: “tutti i diritti, poteri, responsabilità e restrizioni derivanti dai Trattati e tutti i rimedi e le procedura di volta in volta previsti dai Trattati sono, senza necessità di ulteriore promulgazione, efficaci nel Regno Unito e devono essere quindi riconosciuti e applicati”. Indiscussa è la rilevanza di una simile disposizione in un ordinamento giuridico come quello inglese caratterizzato dall’assenza di una Costituzione scritta.
L’adesione della Gran Bretagna al Trattato di Roma è avvenuta proprio attraverso questa legge di recepimento, emanata dal Parlamento al fine specifico di incorporare il Trattato stesso. Ma poiché si tratta di una legge che non ha uno status diverso da quello di ogni altra legge, risulterebbe anch’essa soggetta alla dottrina dell’abrogazione implicita, in forza della quale una legge successiva contenente disposizioni che si pongono in contrasto con una legge anteriore abroga implicitamente quest’ultima. Di opinione diversa è Lord Justice Laws, il quale in occasione del caso Thoburn v. Sunderland City Council - conosciuto anche come caso dei martiri del sistema metrico - avanza un’illuminante teoria: secondo Laws, esiste nell’ordinamento giuridico inglese una gerarchia di fonti normative, per cui le leggi che riguardano il rapporto giuridico tra cittadino e Stato o i diritti costituzionali fondamentali, costituiscono  una categoria speciale e superiore di leggi (distinte dalle leggi ordinarie), definite “highest laws”, che non possono essere abrogate dal Parlamento e quindi sono immuni anche dalla teoria dell’abrogazione implicita. In questa categoria rietrano la Magna Charta, il Bill of Rights del 1689, l’Act of Union, il Reform Acts. Lo European Communities Act appartiene certamente a questa famiglia: ha inglobato l’intero corpus di diritti e doveri comunitari e ha avuto effetti profondi su tutte le dimensioni della vita quotidiana. L’ECA è, in forza del common law, una legge costituzionale.

Il Regno Unito fa quindi un passo indietro con lo European Union Act 2011.
 Il punto nodale della legge è la previsione del ricorso a un referendum popolare nell’ipotesi di proposta di trasferimento di poteri e competenze dalla Gran Bretagna  all’Unione Europea attraverso la creazione di un nuovo Trattato o la modifica dei Trattati esistenti. Si mira sostanzialmente a rafforzare le procedure di accettazione o ratifica delle decisioni dell’UE: questo vuol dire che il Governo non potrà trasferire poteri senza il consenso pubblico.
Molti in Gran Bretagna si sono sentiti tagliati fuori dal processo di sviluppo comunitario e dalle decisioni prese in tale ambito in loro nome. Lo EU Act contribuirà, secondo il Governo, a ricostruire la fiducia e a riavvicinare le persone alle decisioni involgenti i rapporti comunitari.
L’Act include anche una discussa Section 18 che ribadisce il preesistente principio per il quale il Parlamento è assoluto e sovrano (“what a sovereign Parliament can do, a sovereign Parliament can always undo”) e che la norma comunitaria produce effetti nel Regno Unito solo in virtù di una legge parlamentare che riconosca ad essa applicabilità ed efficacia diretta.
Il Governo all’inizio aveva sottolineato questo principio e affermato che la Section 18 doveva essere inclusa nel progetto di legge (bill) per affrontare il problema della futura erosione del principio di sovranità parlamentare da parte delle courts.  Ma alcuni deputati conservatori hanno notato che l’affermazione del Governo - in base alla quale l’Act rafforza il principio di common law per cui la legge europea produce effetti in Gran Bretagna solo attraverso la volontà del Parlamento e solo in virtù di un atto del Parlamento - contraddice la vera essenza del common law. A questo riguardo, il deputato Bernard Jenkin ha asserito che “the common law is a judge-made law. The judges are its authors and its guardian. They may change it whenever they see fit”.  Il Governo dovrebbe coinvolgere più attivamente i giudici sulla base della logica considerazione che, se il Parlamento è sovrano in forza di una decisione delle courts, queste potrebbero facilmente cambiare idea.
La così definita “sovereignty clause” riflette quindi la natura dualistica del modello costituzionale proprio del Regno Unito in base al quale non è accordato alcuno status speciale ai Trattati: i diritti e i doveri in essi contenuti producono effetti nell’ordinamento interno solo attraverso la promulgazione di un’apposita legge che dia ad essi efficacia, sebbene i Trattati dell’UE e le sentenze delle Corti europee prevedano che talune disposizioni dei Trattati, strumenti giuridici e talune sentenze debbano avere applicazione o effetto diretto all’interno di tutti gli Stati membri.
È importante sottolineare che la Section 18 è una clausola declaratoria di una posizione giuridica esistente: i diritti e le obbligazioni assunti dal Regno Unito al momento dell’ingresso nell’Unione Europea rimangono intatti e non c’è pertanto un’alterazione del preesistente rapporto tra fonte comunitaria e legge inglese. In particolare, non viene meno il principio di supremazia del diritto europeo, sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia prima dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità Europea (vedi sentenza n. 6/64 Costa v. ENEL); il Parlamento ha accettato questo principio promulgando lo European Communities Act del 1972. Nella sua opinione a proposito del caso R v. Secretary of State for Transport, ex p. Factortame (No. 2), Lord Bridge afferma: “secondo quanto stabilito dalla legge del 1972, è sempre stato chiaro che le courts britanniche, all’esito del giudizio, dovessero ignorare le norme di diritto nazionale che risultassero in contrasto con qualsiasi norma del diritto comunitario direttamente applicabile; ugualmente, quando le decisioni della Corte di Giustizia hanno riguardato settori della legislazione britannica, il Parlamento ha sempre lealmente accettato l’obbligo di apportare modifiche rapide e appropriate”.
Queste affermazioni evidenziano i limiti intrinseci della clausola 18 di fronte a due diverse rivendicazioni di sovranità, una nazionale e l’altra sovranazionale.
In realtà, l’idea di una sovereignty clause nel contesto delle relazioni con l’Unione Europea non è nuova.  Una simile proposta fu avanzata durante il processo di approvazione dello European Communities Act 1972. Il Governo di allora si oppose a quest’idea e chiese il rigetto della clausola stessa.

Ora non resta che vedere quali saranno le conseguenze dell’Act nel contesto dell’Unione. Certo è che la diatriba tra Euroscettici più incalliti e Pro-Europeans non è destinata a dissolversi.

ELEONORA CHIERICI                                                                                                   

I Regolamenti nello Statuto della Regione Lombardia

1. Lo Statuto della Lombardia è stato uno degli ultimi ad essere approvato e ciò ha permesso agli esperti ed ai consiglieri lombardi di muoversi sulla strada tracciata dalla Consulta. La Commissione speciale per lo Statuto della Lombardia ha iniziato i propri lavori il 27 febbraio 2007 per regalare alla Regione un testo al passo coi tempi che rimpiazzasse quello approvato nel 1971. Dopo circa un anno il Consiglio Regionale lo ha approvato, in seconda lettura, a larga maggioranza.

2. Prima dell’entrata in vigore del nuovo Statuto, l’organizzazione ed il funzionamento della Regione Lombardia erano basati sul testo risalente al 1971. Ai sensi degli artt. 6 e 37 dello Statuto previgente, la potestà regolamentare e quella legislativa erano esercitate dal Consiglio regionale, che non poteva delegarle. Il Presidente della Giunta, invece, promulgava i regolamenti deliberati dal Consiglio (art. 33). In pratica, la potestà regolamentare e quella legislativa erano concentrate in capo al Consiglio. Inoltre, l’iter da seguire per la formazione dei regolamenti era pressoché identico a quello previsto per la formazione delle leggi. L’unica differenza era data dal controllo, che, per i regolamenti, era lo stesso degli atti amministrativi. Non solo. Il regolamento poteva essere impugnato dal Governo per conflitto di attribuzioni e dai privati di fronte al Tar, mentre le leggi regionali erano  impugnabili esclusivamente in via incidentale o in via principale di fronte alla Corte costituzionale. Per tali motivi le Regioni hanno sempre privilegiato la legge rispetto al regolamento. Questo tema è stato affrontato anche in seno alla Commissione per lo Statuto lombardo. Gli statuti già approvati dalle altre Regioni sono stati oggetto delle relazioni degli esperti, dalle quali è emersa la preferenza per la soluzione mista, con la suddivisione del potere regolamentare tra i due organi regionali. Solo lo Statuto della Regione Abruzzo ha attribuito la potestà regolamentare esclusivamente al Consiglio regionale lasciando alla Giunta e ad ogni singolo consigliere il potere d’iniziativa. Lo Statuto approvato dalla Regione Puglia, invece, attribuisce alla Giunta il potere regolamentare, nella forma dei regolamenti esecutivi, di attuazione, di integrazione, nonché dei regolamenti delegati dallo Stato (art. 44, c. 1).
Dopo tante discussioni, la Commissione ha trovato una non facile soluzione di equilibrio, che vede, da un lato, l’attribuzione del potere regolamentare alla Giunta e, dall’altro, l’introduzione  di alcuni contrappesi, volti a riequilibrare la posizione del Consiglio. In particolare, il parere obbligatorio che deve essere rilasciato dalla Commissione consiliare competente entro sessanta giorni, trascorso il quale s’intende favorevole.
 La legge costituzionale n. 1/1999 ha modificato il secondo comma dell’art. 121 Cost. eliminando le parole “e regolamentari” e, per la prima volta, ha distinto  tra promulgazione delle leggi ed emanazione dei regolamenti ad opera del Presidente della Regione. Le Regioni avevano interpretato la norma riformata nel senso di un’attribuzione automatica alla Giunta della potestà regolamentare, nonostante i vecchi statuti, fedeli all’art. 121 Cost., assegnassero la competenza al Consiglio. Sul punto si è espresso anche il Tar Lombardia con la sentenza n. 282 del 2002. Secondo i giudici del Tar ambrosiano l’attribuzione diretta della potestà regolamentare alle Giunte “non pare del tutto in linea con le regole che presiedono al sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, fondato, come è noto, sul principio di tassatività delle fonti primarie e per le fonti di rango secondario su quello di legalità”. A distanza di poco più di un anno, il Tar lombardo è intervenuto nuovamente: “Le modifiche apportate all’art. 121 Cost. dalla l. cost. 1/1999, infatti, hanno determinato l’abolizione della riserva di regolamento in capo al Consiglio regionale, ed hanno comportato una riformulazione della norma, la quale induce a ritenere che – a livello regionale – il potere regolamentare possa spettare sia al Consiglio che alla Giunta” (sent. 2385/2003).
Con la sentenza n. 313 del 2003, la Consulta ha rimesso ai nuovi Statuti la scelta relativa alla titolarità del potere regolamentare ripristinando la potestà consiliare.

3. L’art. 32, comma 2, dello Statuto impone agli atti regolamentari di fare sempre “espresso riferimento alla fonte da cui discendono”. In ossequio a tale principio, sono, quindi, esclusi i regolamenti “indipendenti”, che, com’è noto, regolano le materie in cui manchi la disciplina legislativa.
Gli artt. 41 e 42 elencano i regolamenti regionali che possono essere approvati dalla Giunta: a) di esecuzione e di attuazione di leggi regionali; b) di delegificazione; c) delegati; d) attuativi ed esecutivi di atti comunitari:
a) i regolamenti di esecuzione e di attuazione hanno la funzione di attuare e specificare quanto già disposto da una legge regionale;
b) per i regolamenti di delegificazione, secondo il modello di cui all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, è necessaria una legge di autorizzazione del Consiglio regionale, che stabilisca i principi e le norme generali regolatrici della materia e che disponga l’abrogazione delle disposizioni di legge con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento. Questi regolamenti sono stati al centro del dibattito in seno alla Commissione per lo Statuto. Il prof. D’Andrea ha sollevato qualche perplessità sulla reale esigenza di replicare modelli normativi, che hanno una specifica ragione d’essere a livello statale. Anche il consigliere Muhlbauer ha espresso le sue preoccupazioni temendo la morte del Consiglio con l’introduzione della delegificazione, che avrebbe portato ad un trasferimento del potere legislativo in capo alla Giunta. Queste preoccupazioni erano giustificate visto che, inizialmente, il progetto di Statuto prevedeva una riserva assoluta di legge in materia di diritti civili e sociali: “Per quanto di competenza della Regione” – si leggeva all’art. 39, comma 2 (poi 37, comma 2), del progetto –  la regolazione delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali è riservata in modo assoluto alla legge regionale”. Questa disposizione è stata scritta prendendo spunto dall’art. 117 della Costituzione, nella parte in cui si richiamano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. La riserva di legge è legata a tutta la sfera dei diritti civili e sociali, intesi come i diritti garantiti dal Titolo II (rapporti civili) e dal Titolo III (rapporti etico-sociali) della Costituzione. Una riserva di questo tipo risulterebbe omnicomprensiva e colpirebbe ogni intervento legislativo della Regione poiché ogni sua parte sarebbe riconducibile ai diritti garantiti in Costituzione. In pratica, se la Regione volesse approvare un atto che direttamente o indirettamente incida sul livello delle prestazioni sanitarie erogate dovrebbe, anzi deve, farlo con legge regionale. In questo modo il Consiglio fa amministrazione attraverso un atto legislativo ma che di fatto è amministrativo: è il noto  fenomeno delle leggi-provvedimento. In sostanza s’impedirebbe alla Giunta di operare in concreto. Secondo Mangia, la Costituzione prevede già delle riserve di legge su questi diritti, per cui potrebbero emergere dei problemi.  Ad es. l’art. 32 Cost. contiene una riserva relativa. Se la riserva regionale fosse interpretata come assoluta si rischierebbe di approvare degli atti conformi allo Statuto, ma che potrebbero non essere conformi all’art. 32 della Costituzione. A tal proposito, nella seduta del 5 marzo 2008 la Commissione ha trovato una soluzione di compromesso inserendo nell’art. 14, comma 1, tra le funzioni del Consiglio regionale, quella di “dettare con legge le norme di carattere generale inerenti alla garanzia dei diritti civili e sociali” e dunque una riserva relativa di legge regionale per questo oggetto. Con questa modifica è cambiata anche la rubrica che non è più riserva statutaria di legge regionale, ma potestà legislativa e regolamentare della Regione. Così viene fatta salva la competenza regionale a dettare con legge norme di carattere generale inerenti la garanzia dei diritti civili e sociali;
c) i regolamenti delegati sono quei regolamenti delegati dallo Stato alle Regioni in materie di sua competenza legislativa esclusiva. L’art. 117, comma 6, Cost., che riconosce allo Stato la facoltà di demandare alle Regioni l’integrazione e l’attuazione di dette leggi, ha ricevuto l’avallo della Consulta, in particolare con la sentenza n. 2 del 2004.
In merito ai regolamenti delegati, lo Statuto della Lombardia prevede una disciplina del tutto peculiare rispetto agli altri Statuti. All’art. 41, comma 3, lo Statuto lombardo stabilisce che tali regolamenti siano adottati dal Consiglio regionale, il quale, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, può attribuire detta potestà alla Giunta, previo parere obbligatorio della Commissione consiliare competente. Come ha affermato Tarli Barbieri, detta previsione apre ad una sorta di “cogestione, potenziale, tra Consiglio e Giunta”. Secondo chi scrive, l’attenzione va posta sul parere della Commissione, al fine di evidenziare una notevole differenza con i regolamenti governativi. L’art. 17 della l. n. 400 del 1988 definisce l’iter da seguire per la loro emanazione facendovi rientrare anche il parere del Consiglio di Stato. Come sottolineato dal prof. Mangia nei lavori preparatori allo Statuto lombardo, la previsione di un parere della Commissione è assolutamente anomala nell’ordinamento italiano perché, di solito, è un organo tecnico che fornisce il parere affinché non sia politico, in quanto il regolamento per essere tale deve essere espressione della discrezionalità amministrativa. Non è un unicum nel panorama giuridico italiano. In merito all’adozione dei decreti legislativi, l’art. 14, comma 4, della l. n. 400 del 1988 prevede che qualora il termine previsto per l’esercizio della delega ecceda i due anni, il Governo sia tenuto a richiedere il parere delle Camere, che è espresso entro sessanta giorni dalle Commissioni permanenti competenti per materia. Dopodiché il Governo esamina il parere e lo ritrasmette, con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, alle Commissioni per il parere definitivo. Infine, non bisogna confondere i regolamenti delegati con quelli esecutivi. Questo tema è stato affrontato anche dalla Commissione speciale per lo Statuto della Regione Lombardia. Infatti, come emerge dalla lettura dei verbali, D’Andrea ha sottolineato che la differenziazione fra regolamenti delegati dallo Stato alla Regione e regolamenti esecutivi spiega la diversa ripartizione di competenza: gli uni al Consiglio, gli altri alla Giunta. I regolamenti provenienti dallo Stato “più importanti” di quelli che spettano alla Giunta;
d) per quanto riguarda la trasposizione del diritto dell'Unione Europea nell'ordinamento interno, la Regione Lombardia può adottare i regolamenti di attuazione ed esecuzione di atti dell'UE, nelle materie di sua competenza, al fine di dar seguito agli obblighi che discendono dall'appartenenza dell'Italia all'UE In seno alla Commissione per lo Statuto si è avuto un acceso dibattito anche in materia di politiche comunitarie (rectius: dell’Unione Europea). La riforma del titolo V, la Legge La Loggia (2003) e la Legge Buttiglione (2005) hanno innovato sensibilmente la disciplina. La riforma costituzionale ha ampliato la competenza delle Regioni prevedendo che, nelle materie di loro competenza, queste partecipino alla formazione degli atti normativi dell’Unione e siano competenti in ordine alla loro attuazione, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge statale (art. 117, comma 5, Cost.).
Tutto ciò ha inciso anche sullo Statuto della Lombardia. Infatti, l’art. 39, comma 1, stabilisce che “la Regione adegua il proprio ordinamento a quello comunitario anche attraverso apposita legge regionale, con la quale si provvede a dare diretta attuazione alla normativa comunitaria. La legge dispone inoltre che all’attuazione si possa provvedere nell’ambito dei principi da essa determinati con regolamenti regionali, indicando altresì gli atti normativi comunitari da attuare per via amministrativa”.
Alla fine la Commissione ha optato per la legge comunitaria regionale come disciplinata dall’art 39, quindi, attribuendo al Consiglio Regionale il compito di recepire la normativa europea. Il secondo comma di detto articolo, però, apre alla Giunta Regionale;ivi, infatti, si stabilisce: “La legge dispone inoltre che all’attuazione si possa provvedere nell’ambito dei principi da essa determinati con regolamenti regionali, indicando altresì gli atti normativi comunitari da attuare per via amministrativa”.

NICOLA PISCIAVINO


Referendum e acqua pubblica: un “sì” per la libertà

Dei quattro quesiti referendari sui quali domenica e lunedì prossimi i cittadini si esprimeranno, il primo è senz’altro il più oscuro. Chi provasse a chiedere in giro lumi sul suo contenuto otterrebbe quasi scuramente questa risposta: l’acqua. Il primo quesito si riferisce all’acqua; e chi vota “sì” è contro la privatizzazione dell’acqua. Questa risposta non è, però, puntuale. Si dirà: se il cittadino mediamente informato risulta del tutto disinformato, non sarà colpa sua, ma di chi gli passa quelle informazioni. Certo. Ma resterebbe da capire perché questo accade. Azzardo un’ipotesi: forse perché si teme che una spiegazione resa con parole differenti e più precise possa confondere il cittadino e dissuaderlo dall’esercitare il proprio diritto di voto. A mio parere, ci sono comunque valide ragioni perché i cittadini debbano votare “sì” a tutti e quattro i quesiti referendari; limitatamente al primo di essi, vorrei tentare di spiegarne il perché senza dover ricorrere ad argomenti truffaldini. Il primo quesito non si riferisce unicamente all’acqua, ma a tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, con la sola eccezione di quelli relativi alla distribuzione del gas naturale, alla distribuzione dell’energia elettrica, alla gestione delle farmacie comunali e alla gestione del trasporto ferroviario regionale. Esso, inoltre, non chiede esplicitamente ai cittadini di pronunciarsi contro la “privatizzazione” dell’acqua, in quanto un eventuale esito positivo del referendum colpirebbe il tipo di gestione del servizio, ma non la proprietà dello stesso, che è e resterà (formalmente) pubblica. Con il proprio voto il cittadino si esprimerà per l’abrogazione o per il mantenimento in vita dell’art. 23 bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (convertito in legge e modificato a più riprese nel 2009), il quale, in buona sostanza, prevede che la gestione dei servizi pubblici locali da parte dei privati costituisca la regola e quella degli Enti locali solo l’eccezione. Secondo quanto si ricava da detto articolo, infatti, un Comune può gestire direttamente un servizio pubblico (c.d. gestione in house) solo a fronte di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”. La domanda che occorre porsi è, tuttavia, la seguente: una volta abrogato l’art. 23 bis, quale regola si applicherà? Certamente non la regola contraria – come pure avevano auspicato i promotori del referendum – e cioè che i servizi pubblici verranno posti “al di fuori delle regole del mercato” ed “affidati ad un soggetto realmente pubblico”. E neppure la vecchia regola contenuta nell’art. 113 del Testo unico degli Enti locali del 2000, in base alla quale l’erogazione del servizio pubblico veniva ricondotta a tre possibili modelli di gestione: pubblico, misto e privato. Un eventuale esito positivo del referendum, lungi dal provocare un vuoto legislativo, comporterà, invece, che i servizi pubblici locali di rilevanza economica (acqua compresa) restino disciplinati dalla normativa dell’Unione europea: la quale prevede che gli enti locali possano liberamente scegliere se erogare direttamente il servizio oppure se affidarne la gestione a privati. Quanto poi ciò, in ragione dei tagli alle finanze che gli Enti locali hanno dovuto subire, costituisca una scelta davvero libera, è questione che – almeno per il momento – non interessa qui discutere.

Mi sembra un fatto senz’altro positivo che i cittadini abruzzesi, molisani e pugliesi reagiscano con forza alla minaccia di trivellazione selvaggia del nostro mare. A ragione, essi manifestano e si oppongono al rilascio dei permessi, delle autorizzazioni e delle concessioni, mentre la classe politica locale e nazionale fa spallucce, si allontana definitivamente dal problema: sembra quasi non sia affar suo. Quando decisi di scrivere Abruzzo color petrolio non lo feci con l’intento di ripercorrere le tappe della vicenda petrolifera abruzzese, allo scopo di raccontare attraverso una analisi retrospettiva tutto quel che fino ad allora era accaduto sul piano legislativo. Il mio proposito era un altro: denunciare l’esistenza di un quadro normativo nazionale e regionale assolutamente ambiguo ed indicare un percorso possibile, compatibile sia con le prescrizioni del diritto costituzionale sia con quelle del diritto europeo. In questo senso, il libro voleva essere un punto di partenza per la discussione, non certo un punto di arrivo. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita mi trovo, tuttavia, a dover constatare che quell’invito è caduto nel vuoto. I cittadini manifestano in spiaggia, non davanti al Parlamento. E la classe politica non li sostiene né in spiaggia, né in Parlamento. Provo a riassumere la sostanza di questo discorso (e mi scuso della citazione). Nel libro, a pag. 20, scrivevo: “Puntualmente, ogni qual volta provo a convincere me stesso e gli altri della necessità di un intervento legislativo in materia da parte della Regione, c’è sempre qualcuno che mi oppone che le leggi vivono nell’alto dei cieli, mentre su questa terra la questione principale atterrebbe al Centro Oli di Ortona e più in generale alle diverse concessioni rilasciate (...). Niente di più inesatto. I due piani sono senz’altro connessi e meritano entrambi attenzione; pur tuttavia essi reclamano azioni completamente differenti. (...). Del resto, anche qualora si riuscisse ad ottenere la revoca di un atto di concessione o di autorizzazione, essa riguarderebbe pur sempre un caso specifico e mai la generalità dei casi”. Con questo intendevo sottolineare una cosa molto semplice: contrastare attraverso ricorsi amministrativi le diverse concessioni rilasciate è senz’altro opportuno, ma non sufficiente. Il rilascio di un permesso, di una autorizzazione o di una concessione avviene, infatti, sulla base di una legge. Tra l’atto legislativo e l’atto amministrativo vi è, per così dire, un necessario rapporto di causa ed effetto. Va bene tentare di debellare l’effetto, ma occorre agire anche sulla causa. Se ci limitiamo a combattere l’effetto e non la causa, non andremo molto lontano: talvolta ci troveremo a gioire del fatto che una concessione verrà negata; talaltra ci dispereremo perché una concessione sarà rilasciata. Su questo punto, però, ho maturato una mia personale convinzione: occorre effettuare un salto di qualità. La classe politica abruzzese ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. E da essa non c’è da attendersi più nulla. Non è stata in condizione di approvare una legge che risolvesse in modo decente il problema degli idrocarburi in terraferma, figuriamoci se è in condizione ora di risolvere la questione del petrolio in mare: ammesso (e non concesso) che la Regione non abbia competenza al riguardo, credo che il suo tempo sia ormai scaduto e che il problema debba essere affrontato altrove. Mi spiego. Lo Stato italiano è pur sempre libero di disporre come meglio crede del proprio territorio; è libero, cioè, di decidere se aprire o chiudere parti del proprio territorio all’esercizio delle attività petrolifere (v. art. 2, Direttiva 94/22/CE). È chiaro, tuttavia, che qualora dovesse decidere di aprire una parte del proprio territorio a dette attività, non potrebbe poi vietare che sulla stessa si eserciti la libertà di iniziativa economica delle società petrolifere (italiane e straniere). Una soluzione, dunque, ci sarebbe. Al di là di quanto si sta già lodevolmente facendo, sarebbe auspicabile che l’azione dei cittadini si indirizzasse: verso il Governo, al fine di chiedere che esso dichiari in sede europea di voler chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere (rectius: il proprio mare territoriale); verso il Parlamento, affinché approvi una nuova legge, con cui si rechi una disciplina più trasparente della materia e si faccia divieto di esercitare quelle attività nell’Adriatico, posto che una limitazione della libertà di iniziativa economica appare possibile solo per legge e solo alle condizioni stabilite dall’art. 41 della Costituzione. Un obiettivo ambizioso, certo; ma non impossibile da raggiungere.

ENZO DI SALVATORE

(10 giugno 2011)


Il petrolio e l’Adriatico: un problema che (in parte) si può risolvere

Mi sembra un fatto senz’altro positivo che i cittadini abruzzesi, molisani e pugliesi reagiscano con forza alla minaccia di trivellazione selvaggia del nostro mare. A ragione, essi manifestano e si oppongono al rilascio dei permessi, delle autorizzazioni e delle concessioni, mentre la classe politica locale e nazionale fa spallucce, si allontana definitivamente dal problema: sembra quasi non sia affar suo. Quando decisi di scrivere Abruzzo color petrolio non lo feci con l’intento di ripercorrere le tappe della vicenda petrolifera abruzzese, allo scopo di raccontare attraverso una analisi retrospettiva tutto quel che fino ad allora era accaduto sul piano legislativo. Il mio proposito era un altro: denunciare l’esistenza di un quadro normativo nazionale e regionale assolutamente ambiguo ed indicare un percorso possibile, compatibile sia con le prescrizioni del diritto costituzionale sia con quelle del diritto europeo. In questo senso, il libro voleva essere un punto di partenza per la discussione, non certo un punto di arrivo. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita mi trovo, tuttavia, a dover constatare che quell’invito è caduto nel vuoto. I cittadini manifestano in spiaggia, non davanti al Parlamento. E la classe politica non li sostiene né in spiaggia, né in Parlamento. Provo a riassumere la sostanza di questo discorso (e mi scuso della citazione). Nel libro, a pag. 20, scrivevo: “Puntualmente, ogni qual volta provo a convincere me stesso e gli altri della necessità di un intervento legislativo in materia da parte della Regione, c’è sempre qualcuno che mi oppone che le leggi vivono nell’alto dei cieli, mentre su questa terra la questione principale atterrebbe al Centro Oli di Ortona e più in generale alle diverse concessioni rilasciate (...). Niente di più inesatto. I due piani sono senz’altro connessi e meritano entrambi attenzione; pur tuttavia essi reclamano azioni completamente differenti. (...). Del resto, anche qualora si riuscisse ad ottenere la revoca di un atto di concessione o di autorizzazione, essa riguarderebbe pur sempre un caso specifico e mai la generalità dei casi”. Con questo intendevo sottolineare una cosa molto semplice: contrastare attraverso ricorsi amministrativi le diverse concessioni rilasciate è senz’altro opportuno, ma non sufficiente. Il rilascio di un permesso, di una autorizzazione o di una concessione avviene, infatti, sulla base di una legge. Tra l’atto legislativo e l’atto amministrativo vi è, per così dire, un necessario rapporto di causa ed effetto. Va bene tentare di debellare l’effetto, ma occorre agire anche sulla causa. Se ci limitiamo a combattere l’effetto e non la causa, non andremo molto lontano: talvolta ci troveremo a gioire del fatto che una concessione verrà negata; talaltra ci dispereremo perché una concessione sarà rilasciata. Su questo punto, però, ho maturato una mia personale convinzione: occorre effettuare un salto di qualità. La classe politica abruzzese ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. E da essa non c’è da attendersi più nulla. Non è stata in condizione di approvare una legge che risolvesse in modo decente il problema degli idrocarburi in terraferma, figuriamoci se è in condizione ora di risolvere la questione del petrolio in mare: ammesso (e non concesso) che la Regione non abbia competenza al riguardo, credo che il suo tempo sia ormai scaduto e che il problema debba essere affrontato altrove. Mi spiego. Lo Stato italiano è pur sempre libero di disporre come meglio crede del proprio territorio; è libero, cioè, di decidere se aprire o chiudere parti del proprio territorio all’esercizio delle attività petrolifere (v. art. 2, Direttiva 94/22/CE). È chiaro, tuttavia, che qualora dovesse decidere di aprire una parte del proprio territorio a dette attività, non potrebbe poi vietare che sulla stessa si eserciti la libertà di iniziativa economica delle società petrolifere (italiane e straniere). Una soluzione, dunque, ci sarebbe. Al di là di quanto si sta già lodevolmente facendo, sarebbe auspicabile che l’azione dei cittadini si indirizzasse: verso il Governo, al fine di chiedere che esso dichiari in sede europea di voler chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere (rectius: il proprio mare territoriale); verso il Parlamento, affinché approvi una nuova legge, con cui si rechi una disciplina più trasparente della materia e si faccia divieto di esercitare quelle attività nell’Adriatico, posto che una limitazione della libertà di iniziativa economica appare possibile solo per legge e solo alle condizioni stabilite dall’art. 41 della Costituzione. Un obiettivo ambizioso, certo; ma non impossibile da raggiungere.

Mi sembra un fatto senz’altro positivo che i cittadini abruzzesi, molisani e pugliesi reagiscano con forza alla minaccia di trivellazione selvaggia del nostro mare. A ragione, essi manifestano e si oppongono al rilascio dei permessi, delle autorizzazioni e delle concessioni, mentre la classe politica locale e nazionale fa spallucce, si allontana definitivamente dal problema: sembra quasi non sia affar suo. Quando decisi di scrivere Abruzzo color petrolio non lo feci con l’intento di ripercorrere le tappe della vicenda petrolifera abruzzese, allo scopo di raccontare attraverso una analisi retrospettiva tutto quel che fino ad allora era accaduto sul piano legislativo. Il mio proposito era un altro: denunciare l’esistenza di un quadro normativo nazionale e regionale assolutamente ambiguo ed indicare un percorso possibile, compatibile sia con le prescrizioni del diritto costituzionale sia con quelle del diritto europeo. In questo senso, il libro voleva essere un punto di partenza per la discussione, non certo un punto di arrivo. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita mi trovo, tuttavia, a dover constatare che quell’invito è caduto nel vuoto. I cittadini manifestano in spiaggia, non davanti al Parlamento. E la classe politica non li sostiene né in spiaggia, né in Parlamento. Provo a riassumere la sostanza di questo discorso (e mi scuso della citazione). Nel libro, a pag. 20, scrivevo: “Puntualmente, ogni qual volta provo a convincere me stesso e gli altri della necessità di un intervento legislativo in materia da parte della Regione, c’è sempre qualcuno che mi oppone che le leggi vivono nell’alto dei cieli, mentre su questa terra la questione principale atterrebbe al Centro Oli di Ortona e più in generale alle diverse concessioni rilasciate (...). Niente di più inesatto. I due piani sono senz’altro connessi e meritano entrambi attenzione; pur tuttavia essi reclamano azioni completamente differenti. (...). Del resto, anche qualora si riuscisse ad ottenere la revoca di un atto di concessione o di autorizzazione, essa riguarderebbe pur sempre un caso specifico e mai la generalità dei casi”. Con questo intendevo sottolineare una cosa molto semplice: contrastare attraverso ricorsi amministrativi le diverse concessioni rilasciate è senz’altro opportuno, ma non sufficiente. Il rilascio di un permesso, di una autorizzazione o di una concessione avviene, infatti, sulla base di una legge. Tra l’atto legislativo e l’atto amministrativo vi è, per così dire, un necessario rapporto di causa ed effetto. Va bene tentare di debellare l’effetto, ma occorre agire anche sulla causa. Se ci limitiamo a combattere l’effetto e non la causa, non andremo molto lontano: talvolta ci troveremo a gioire del fatto che una concessione verrà negata; talaltra ci dispereremo perché una concessione sarà rilasciata. Su questo punto, però, ho maturato una mia personale convinzione: occorre effettuare un salto di qualità. La classe politica abruzzese ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. E da essa non c’è da attendersi più nulla. Non è stata in condizione di approvare una legge che risolvesse in modo decente il problema degli idrocarburi in terraferma, figuriamoci se è in condizione ora di risolvere la questione del petrolio in mare: ammesso (e non concesso) che la Regione non abbia competenza al riguardo, credo che il suo tempo sia ormai scaduto e che il problema debba essere affrontato altrove. Mi spiego. Lo Stato italiano è pur sempre libero di disporre come meglio crede del proprio territorio; è libero, cioè, di decidere se aprire o chiudere parti del proprio territorio all’esercizio delle attività petrolifere (v. art. 2, Direttiva 94/22/CE). È chiaro, tuttavia, che qualora dovesse decidere di aprire una parte del proprio territorio a dette attività, non potrebbe poi vietare che sulla stessa si eserciti la libertà di iniziativa economica delle società petrolifere (italiane e straniere). Una soluzione, dunque, ci sarebbe. Al di là di quanto si sta già lodevolmente facendo, sarebbe auspicabile che l’azione dei cittadini si indirizzasse: verso il Governo, al fine di chiedere che esso dichiari in sede europea di voler chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere (rectius: il proprio mare territoriale); verso il Parlamento, affinché approvi una nuova legge, con cui si rechi una disciplina più trasparente della materia e si faccia divieto di esercitare quelle attività nell’Adriatico, posto che una limitazione della libertà di iniziativa economica appare possibile solo per legge e solo alle condizioni stabilite dall’art. 41 della Costituzione. Un obiettivo ambizioso, certo; ma non impossibile da raggiungere.

ENZO DI SALVATORE

(4 giugno 2011)

 Il caso Sayn-Wittgenstein: ordine pubblico e identità costituzionale dello Stato membro

1. La pronuncia della Corte di giustizia che qui si annota è originata da una questione pregiudiziale posta dal Verwaltungsgerichtshof austriaco, con cui si chiedeva se l’art. 21 TFUE, relativo alla libera circolazione delle persone, fosse d’ostacolo al rifiuto, espresso da una normativa nazionale, di riconoscere un cognome attribuito in un altro Stato membro ad un figlio adottivo (adulto). Nel caso di specie, si trattava di comprendere se la signora Ilonka Sayn-Wittgenstein, cittadina austriaca residente in Germania, potesse conservare il cognome nella forma “Fürstin von Sayn-Wittgenstein”. A tal riguardo, nella causa principale con cui si era chiesto l’annullamento del decreto del Landeshauptmann di Vienna, che aveva rettificato il cognome della cittadina austriaca (eliminando dallo stesso le parole “Fürstin von”), la signora Sayn-Wittgenstein aveva osservato: che “il mancato riconoscimento degli effetti giuridici dell’adozione riguardo al nome” costituisse “un ostacolo alla libera circolazione delle persone”, essendo, in questo modo, costretta a portare cognomi differenti nei diversi Stati membri; che non potesse legittimamente invocarsi il limite dell’ordine pubblico, mancandone i presupposti (necessità ed urgenza di farvi ricorso e sufficiente collegamento con lo Stato membro interessato); che una modifica del cognome, nei termini stabiliti dal decreto dell’autorità austriaca, costituisse una violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare, come garantito dall’art. 8 della CEDU. Di contro, il Landeshauptmann di Vienna aveva sostenuto che non dovesse procedersi ad una disapplicazione della legge sull’abolizione della nobiltà del 1919, poiché, in ragione del rinvio effettuato dall’art. 149, comma 1, della Costituzione austriaca (Bundesverfassungsgesetz), essa aveva acquisito “valore costituzionale”: se si fosse proceduto ad una disapplicazione di detta legge, ne sarebbe derivata “una grave violazione dei valori fondamentali sui quali poggia l’ordinamento giuridico austriaco”.

2. Con il suo rinvio, il giudice austriaco chiedeva, dunque, alla Corte di giustizia se ragioni di ordine costituzionale potessero autorizzare uno Stato membro a non riconoscere in tutti i suoi elementi il nome ottenuto da uno dei suoi cittadini per effetto di una adozione in un altro Stato membro. Nella sua pronuncia, la Corte non nega che detto rifiuto costituisca effettivamente una restrizione delle libertà riconosciute dall’art. 21 TFUE ad ogni cittadino dell’Unione. Pur tuttavia, essa ritiene di dover verificare se, nel caso di specie, sussistano ragioni tali da giustificare una legittima restrizione alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE. A tal fine, e sulla base delle diverse osservazioni presentate, essa giunge a considerare: da un lato, la libertà del cittadino UE; dall’altro, il limite dell’ordine pubblico e quello dell’identità costituzionale dello Stato membro.

Ebbene, il problema che qui preme porre in luce concerne esattamente i termini di tale rapporto, giacché, a ben vedere, esso involge due questioni tra loro non perfettamente sovrapponibili, e cioè: il c.d. ordine pubblico materiale, espresso dal concreto interesse sotteso ad una previsione costituzionale (cui si ricollegano le misure adottate dalle autorità nazionali), e il c.d. ordine pubblico ideale, che riassumendosi nella formula della “identità costituzionale” dello Stato membro, esprimerebbe, almeno secondo la concezione fatta propria dal Governo austriaco, un nucleo di principi e/o di valori costituzionali non derogabili (su questa distinzione v. per tutti L. PALADIN, Ordine pubblico, in Nss.D.I., XII, Torino, 1965, 130 ss.; A. PACE, Il concetto di ordine pubblico nella Costituzione italiana, in Arch. giur., 1963, 111 ss.).

Ed infatti, mentre il giudice europeo ritiene che la nozione di ordine pubblico, quale deroga ad una libertà fondamentale, “deve essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle Istituzioni dell’Unione europea” (e il ricorso ad essa può giustificarsi “solo in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività”) (cfr. Corte giust., sent. 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, in Racc., 2004, I-9609, punto 30; ma sulla nozione di “ordine pubblico” v. già Corte giust., sent. 4 dicembre 1974, causa 41/74, Yvonne van Duyn, in Racc., 1974, 1337 ss., punto 18; Corte giust., sent. 28 ottobre 1975, causa 36/75, Rutili, in Racc., 1975, punti 26 ss.; in dottrina v. F. ANGELINI, Ordine pubblico nel diritto comunitario, in Dig. Disc. Pubbl. – Aggiornamento, Torino, 2005, 503 ss.; amplius ID., Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea, Padova, 2007), il Governo nazionale fa valere che “le disposizioni in questione nella causa principale mirano a salvaguardare l’identità costituzionale della Repubblica austriaca” ovvero: “una decisione a carattere fondamentale del legislatore costituente a favore di una formale parità di trattamento di tutti i cittadini dinanzi alla legge, volta a far sì che nessun cittadino austriaco possa acquisire prestigio particolare attraverso aggiunte al nome sotto forma di titoli nobiliari, onorificenze e dignità, la cui unica funzione sia quella di distinguere la persona che se ne fregia, e che non abbiano nessun legame con la sua professione o i suoi studi”. In quest’ottica, pertanto, una restrizione alla libertà riconosciuta dal Trattato si giustificherebbe “alla luce della storia e dei valori fondamentali della Repubblica austriaca”.

Questa prospettiva, invero, non è del tutto inedita, in quanto, com’è noto, è stata da tempo accolta da talune Corti costituzionali (come quella italiana o spagnola), che espressamente hanno discorso di valori ovvero di principi supremi o anche di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, per sottolineare come sul piano interno sussistano limiti non travalicabili dal diritto comunitario (oggi: dell’Unione). Più scopertamente, però, è stato il Bundesverfassungsgericht tedesco ad aver postulato – dapprima solo incidentalmente (sent. 1967) ed in seguito più manifestamente (sent. “Lissabon” 2009 e, in un senso in parte diverso, sent. “Mangold” 2010) – una sostanziale coincidenza tra il novero di detti valori o principi e la “Verfassungsidentität” (identità della Costituzione), sostenendo che detto concetto esprimerebbe un limite di carattere assoluto ovvero intangibile rispetto al processo di integrazione, al cui controllo sarebbe tenuto il Tribunale costituzionale federale (“Identitätskontrolle”). Questo epilogo, in tutta evidenza, finisce per rendere sostanzialmente equivalenti tra loro il concetto di “identità costituzionale” e il concetto di “ordine pubblico”, che, sul piano internazionale, si configura tradizionalmente come un limite di carattere funzionale e assoluto.

3. È evidente, però, che – al di là delle interpretazioni che possono essere rese circa il significato da attribuire alla prescrizione di cui all’art. 4.2 TUE, relativa al rispetto dell’identità nazionale e al rispetto delle funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico – il pensiero del giudice europeo si discosta dalla prospettiva affacciata dal Tribunale costituzionale federale tedesco (ed anche dall’opinione di parte della dottrina: cfr. A. BLECKMANN, Die Wahrung der „nationalen Identität“ im Unions-Vertrag, in JZ, 1997, 265 ss.): per il Bundesverfassungsgericht, infatti, l’identità costituzionale resta un limite di carattere esterno al processo di integrazione, tant’è che il suo rispetto viene rivendicato dal giudice costituzionale nazionale; per il giudice europeo, invece, essa – convertita come accade nel caso di specie, nell’esigenza di tutela, da parte della Repubblica austriaca, del suo ordine pubblico materiale – tende a configurarsi come un limite di carattere interno al processo di integrazione (per via della previsione espressa posta dall’art. 4.2 TUE (versione Lisbona) e già prima dall’art. 6.3 TUE (versione Amsterdam)). Non è un caso che, in un passaggio della sua pronuncia, la Corte sostenga che “nel contesto della storia costituzionale austriaca, la legge sull’abolizione della nobiltà può, in quanto elemento dell’identità nazionale, entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone riconosciuto dalle norme dell’Unione” (ma per un approccio non molto dissimile v. già M. HILF, Europäische Union und nationale Identität der Mitgliedstaaten, in Gedächtnisschrift für Eberhard Grabitz, a cura di A. Randelzhofer-R. Scholz-D. Wilke, München 1995, 157 ss.).

È evidente, pertanto, che le due posizioni restano inconciliabili. Ritenere, infatti, che il rispetto dell’identità costituzionale costituisca un limite di carattere esterno al processo di integrazione, significa anche qualificare detto limite come assoluto e non ammettere, dunque, alcun bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco: tra quanto, cioè, lo Stato membro ritiene di dover idealmente opporre al processo di integrazione e i concreti interessi che, tutelati in sede europea, reclamano soddisfazione dinanzi al giudice nazionale. Ritenere, invece, che l’identità possa “entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone” significa considerare detto limite come relativo e non consentire che lo Stato membro, in una prospettiva di alterità o di separazione rispetto al processo di integrazione, possa valutare unilateralmente se un dato principio o istituto del suo ordinamento giuridico si concreti in un elemento della sua identità costituzionale.

Mi sembra un fatto senz’altro positivo che i cittadini abruzzesi, molisani e pugliesi reagiscano con forza alla minaccia di trivellazione selvaggia del nostro mare. A ragione, essi manifestano e si oppongono al rilascio dei permessi, delle autorizzazioni e delle concessioni, mentre la classe politica locale e nazionale fa spallucce, si allontana definitivamente dal problema: sembra quasi non sia affar suo. Quando decisi di scrivere Abruzzo color petrolio non lo feci con l’intento di ripercorrere le tappe della vicenda petrolifera abruzzese, allo scopo di raccontare attraverso una analisi retrospettiva tutto quel che fino ad allora era accaduto sul piano legislativo. Il mio proposito era un altro: denunciare l’esistenza di un quadro normativo nazionale e regionale assolutamente ambiguo ed indicare un percorso possibile, compatibile sia con le prescrizioni del diritto costituzionale sia con quelle del diritto europeo. In questo senso, il libro voleva essere un punto di partenza per la discussione, non certo un punto di arrivo. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita mi trovo, tuttavia, a dover constatare che quell’invito è caduto nel vuoto. I cittadini manifestano in spiaggia, non davanti al Parlamento. E la classe politica non li sostiene né in spiaggia, né in Parlamento. Provo a riassumere la sostanza di questo discorso (e mi scuso della citazione). Nel libro, a pag. 20, scrivevo: “Puntualmente, ogni qual volta provo a convincere me stesso e gli altri della necessità di un intervento legislativo in materia da parte della Regione, c’è sempre qualcuno che mi oppone che le leggi vivono nell’alto dei cieli, mentre su questa terra la questione principale atterrebbe al Centro Oli di Ortona e più in generale alle diverse concessioni rilasciate (...). Niente di più inesatto. I due piani sono senz’altro connessi e meritano entrambi attenzione; pur tuttavia essi reclamano azioni completamente differenti. (...). Del resto, anche qualora si riuscisse ad ottenere la revoca di un atto di concessione o di autorizzazione, essa riguarderebbe pur sempre un caso specifico e mai la generalità dei casi”. Con questo intendevo sottolineare una cosa molto semplice: contrastare attraverso ricorsi amministrativi le diverse concessioni rilasciate è senz’altro opportuno, ma non sufficiente. Il rilascio di un permesso, di una autorizzazione o di una concessione avviene, infatti, sulla base di una legge. Tra l’atto legislativo e l’atto amministrativo vi è, per così dire, un necessario rapporto di causa ed effetto. Va bene tentare di debellare l’effetto, ma occorre agire anche sulla causa. Se ci limitiamo a combattere l’effetto e non la causa, non andremo molto lontano: talvolta ci troveremo a gioire del fatto che una concessione verrà negata; talaltra ci dispereremo perché una concessione sarà rilasciata. Su questo punto, però, ho maturato una mia personale convinzione: occorre effettuare un salto di qualità. La classe politica abruzzese ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. E da essa non c’è da attendersi più nulla. Non è stata in condizione di approvare una legge che risolvesse in modo decente il problema degli idrocarburi in terraferma, figuriamoci se è in condizione ora di risolvere la questione del petrolio in mare: ammesso (e non concesso) che la Regione non abbia competenza al riguardo, credo che il suo tempo sia ormai scaduto e che il problema debba essere affrontato altrove. Mi spiego. Lo Stato italiano è pur sempre libero di disporre come meglio crede del proprio territorio; è libero, cioè, di decidere se aprire o chiudere parti del proprio territorio all’esercizio delle attività petrolifere (v. art. 2, Direttiva 94/22/CE). È chiaro, tuttavia, che qualora dovesse decidere di aprire una parte del proprio territorio a dette attività, non potrebbe poi vietare che sulla stessa si eserciti la libertà di iniziativa economica delle società petrolifere (italiane e straniere). Una soluzione, dunque, ci sarebbe. Al di là di quanto si sta già lodevolmente facendo, sarebbe auspicabile che l’azione dei cittadini si indirizzasse: verso il Governo, al fine di chiedere che esso dichiari in sede europea di voler chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere (rectius: il proprio mare territoriale); verso il Parlamento, affinché approvi una nuova legge, con cui si rechi una disciplina più trasparente della materia e si faccia divieto di esercitare quelle attività nell’Adriatico, posto che una limitazione della libertà di iniziativa economica appare possibile solo per legge e solo alle condizioni stabilite dall’art. 41 della Costituzione. Un obiettivo ambizioso, certo; ma non impossibile da raggiungere.

ENZO DI SALVATORE

(13 marzo 2011)