OPINIONI IN LIBERTA'

A proposito del regolamento sulle videoregistrazioni approvato dal Comune di Casalbordino

Trovo particolarmente interessante il dibattito relativo alla possibilità di videoregistrare e diffondere le sedute del Consiglio comunale, così come d’ogni altra assemblea democratica.
Il Comune di Casalbordino, per mezzo dell’approvazione di uno specifico Regolamento, ha offerto uno spunto efficace per attualizzare il tema ed affrontarlo seriamente.
Sono completamente in sintonia con l’opinione del prof. Di Salvatore, il quale solleva delle criticità e dei problemi difficilmente superabili, in un’ottica di effettiva tutela delle libertà e dei diritti costituzionalmente garantiti.
Non condivido la decisione del T.A.R. del Veneto, peraltro irritualmente riportata tra le premesse dell'Atto consiliare, mentre ritengo più apprezzabili i pronunciamenti di altri Tribunali amministrativi, cui pure il prof. Di Salvatore ha fatto cenno.
Encomiabile lo sforzo di alcuni dei consiglieri più giovani di ottenere la più ampia diffusione dei lavori dell’Assemblea comunale, così com’è comprensibile la necessità avvertita dagli altri loro colleghi di tutelare la dignità dell’Organo.
Il punto è che entrambe le necessità potrebbero "coabitare" in un giusto regolamento, ove il rispetto dell’una non escluda necessariamente l’altra.
Il testo definitivamente approvato, invece, parrebbe sacrificare oltremodo la pubblicità dei lavori consiliari a scapito di un giusto diritto d’informazione e di un efficace controllo sulla "condotta politica" dei consiglieri.
L’elezione in seno ad un’assemblea importante, qual è il consiglio comunale, dovrebbe richiamare i consiglieri a prestare particolare attenzione alla circostanza che i cittadini hanno affidato loro il compito di gestire la "cosa pubblica" con la pretesa di controllare, passo per passo, l’operato degli amministratori: parametro indispensabile per poterli giudicare politicamente all'esito del mandato e, più in generale, per poter verificare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione, così come invocato dalla nostra Carta costituzionale (art. 97).
Ciò significa che i lavori dell’Assemblea andrebbero pubblicizzati il più possibile.
È pur vero che questo compito potrebbe essere assolto da un sistema di videoregistrazione gestito direttamente dal Comune (art. 1, comma 2 Reg.); con ciò scongiurando che vengano videoripresi i consiglieri non impegnati negli interventi (a tutela delle loro libertà e anche per non spettacolarizzare inutilmente gli eventuali confronti - o addirittura i possibili scontri - tra i diversi componenti dell’Assemblea), ma la formulazione del citato comma 2 dell’art. 1 rischia di mostrarlo particolarmente premuroso per il "maquillage" del consiglio e molto poco per l’effettiva pubblicità dei lavori.
La disposizione afferma che le riprese saranno effettuate direttamente dal personale comunale o da altro appositamente incaricato ed il Comune potrà (NON dovrà) diffonderle sul web o su rete televisiva. Ciò postula che, del tutto arbitrariamente, gli amministratori decideranno cosa rendere più fruibile e cosa meno, a seconda della convenienza.
Se, invero, un cittadino volesse giudicare cosa è avvenuto nel corso di una specifica seduta consiliare non diffusa via web o in TV, dovrebbe mettere in moto la macchinosa procedura d’accesso agli atti amministrativi per ottenere, a sue spese, copia dei filmati.
Ovviamente, tutto ciò limita drasticamente la fruibilità delle videoriprese.
Maldestra, infine, anche la formulazione dell’ultimo periodo del comma 2 del già citato articolo 1, il quale vieta "al consigliere comunale" di pubblicizzare sul proprio sito internet il materiale documentale ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni. Ovviamente, di questo non può che darsi un’interpretazione conforme alla legge. Per cui il consigliere non dovrebbe poter pubblicare soltanto gli atti che, per legge, sono segreti (quelli cioè evocati dall’ultimo periodo del comma 2 dell'art. 43 del TUEL, non anche quelli di cui al primo periodo del medesimo comma).
Stante l’ambiguità della disposizione, tuttavia, riterrei utile un chiarimento da parte del Consiglio.
Una interpretazione più restrittiva vanificherebbe non soltanto il diritto all’informazione, ma anche alla libertà del Consigliere di autodeterminarsi e svolgere il proprio dovere per mezzo degli strumenti che, nella propria autonomia, egli ritiene siano più opportuni ed efficaci.
Nessuno può limitare i diritti del consigliere, come garantiti dalla legge: neppure una deliberazione del Consiglio comunale.


 ANDREA CERRONE



Sovranità del Popolo e referendum elettorale

Giungono a me, come a tanti, sollecitazioni a un impegno per la raccolta di firme per un referendum abrogativo della legge elettorale, che avrebbe come effetto la sostanziale reintroduzione del sistema precedente.
Ritengo l’attuale legge elettorale pessima e anche incostituzionale (a Costituzione vigente), degna di un regime totalitario, non di una democrazia, per due ragioni di fondo: il premio di maggioranza a qualunque partito (o coalizione di partiti) sopravanzi anche di un voto gli altri, che può trovarsi così ad avere la maggioranza nella Camera dei Deputati, pur essendo lontanissimo dall’averla nel Paese e la trasformazione del massimo organo di rappresentanza del Popolo in un consiglio nominato dai “principi” di turno e da loro – non dal popolo – dipendente. Non dimentico, però, che la legge fu approvata con un’opposizione di pura facciata – non con l’Aventino che avrebbe meritato – e neppure l’uso entusiasta che ne è stato fatto come strumento per arrivare all’agognato bipartitismo – panacea, non si sa perché, di tutti i mali – da parte di Berlusconi e Veltroni, col ricatto del “voto utile” alle ultime elezioni politiche.
Anche alla luce di questo, la storia di questo referendum non mi piace affatto. Nasce, infatti, dalle ceneri di un altro – quello proposto da Passigli – che, chissà perché (?), non ha trovato alcun appoggio nei partiti.
Ma su questo tornerò più avanti.
Andiamo con ordine.
Il Comitato “Io firmo”, che – per primo – aveva proposto un referendum per l’abrogazione dell’attuale legge elettorale, ha desistito – il 27 luglio 2011 – dalla raccolta delle firme. La decisione è stata motivata da un presupposto rivelatosi errato: “considerata la disponibilità dei proponenti il secondo referendum (quello che ci si chiede oggi di sostenere) a non procedere oltre con la loro iniziativa”.
L’altro referendum va, invece, avanti, con la benedizione degli apparati dei partiti e dei “poteri forti”.
Perché?
Il Comitato “Io firmo” aveva proposto un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale, imperfetto – necessariamente – come tutti i referendum. Aveva, però, al suo centro un punto essenziale: quello di voler dare, nuovamente, ai cittadini la possibilità di scegliere i partiti – cioè le idee, i progetti politici – e, in questo quadro, le persone che li rappresentassero. È ovvio che, anche in un sistema proporzionale, alla fine le liste le decidono gli organi – o i potenti – dei partiti; nel deciderle, però, non possono non tener conto del fatto che il loro peso (quello dei partiti) – nel parlamento, nelle regioni, nei comuni etc. – dipenderà dai voti che la loro lista prenderà, dalla loro capacità di attrarlo, quel voto: il numero dei loro eletti nelle assemblee rappresentative dipenderà da questo, non dalla capacità di contrattazione tra ristretti gruppi. Dipenderà dagli elettori. E, soprattutto, saranno costretti – i partiti – a esistere, a vivere, a costruire il consenso e la partecipazione anche tra un’elezione e l’altra. Nel sistema uninominale – sia in quello a turno unico, che in quello a doppio turno – invece, a scegliere chi dovrà rappresentarli non sono gli elettori, ma gruppi ristretti, che decidono “chi” dovrà essere candidato “dove” (dove presumibilmente si vince, dove presumibilmente si perde).
Il modello dell’uninominale è nato molti secoli fa e ha creato – dov’è nato – nei secoli, sostanzialmente due partiti. In Italia, invece, è stato imposto, a freddo, col Mattarellum.
Tant’è che i due partiti non sono nati; è diminuita, però, la partecipazione popolare alle elezioni, si è deteriorata – perché ha perso il suo senso proprio – quella militante tra un’elezione e l’altra. Né ha garantito governi stabili: Berlusconi e Prodi sono caduti proprio in vigenza del “Mattarellum”.
In Italia, dopo quasi vent’anni, non esistono “due partiti” (in realtà, al di là della facile generalizzazione propagandistica, non esistono in nessuno dei Paesi occidentali). Esistono più partiti: più opzioni di governo della società, riferibili a quadri, complessivi, di valori e, anche, a rappresentanze – prevalenti – di alcuni gruppi (è difficile parlare di classi) sociali.
Perché “Partito” è una parola che ha due significati: quello di “apparato”, casta e quello (art. 49 Cost.) di “libera associazione di cittadini”, costituita “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Il “Partito” nel primo significato è il soggetto che agisce nel “Porcellum” e, anche, nel “Mattarellum”. Quello nel secondo è l’attore del sistema proporzionale. E sarebbe ora di dire, anche, che i costi della politica della cosiddetta prima Repubblica erano di molto inferiori a quelli di II-III. Per una ragione semplice: perché nella prima la politica era non solo “professione”, ma anche militanza, impegno civile. Certo, i partiti costavano; certo, c’era del marcio in Danimarca. Ma il “marcio” era “marcio”; la politica pretendeva di essere altro (e i cittadini pretendevano dalla politica di essere altro). D’altronde, né corruzione, né debito pubblico sono diminuiti.
Oggi quanto ci si ripropone è il Mattarellum.
Con l’uninominale, però (e anche questa è storia) si determinano due effetti, entrambi negativi. Il primo è la personalizzazione della politica: il rapporto tra elettore ed eletto da politico diviene unicamente personale. L’elettore non può scegliere un eletto che meglio di altri, nei limiti del possibile, rappresenti le sue idee: è chiamato a scegliere il suo “rappresentante”, quello che – nella medioevale Camera dei Comuni inglese – doveva andare a contrattare col Re l’ammontare dell’imposizione fiscale locale in cambio di una qualche contropartita. Può trovarsi a dover scegliere tra una onesta persona che politicamente non lo rappresenta e una con la quale non prenderebbe neppure un caffé, ma che fa capo allo schieramento in cui il partito che dovrebbe rappresentarlo è collocato. “Deve” scegliere tra Cristo e Barabba.
Ma è lui a scegliere, o altri?
Con l’uninominale, sia nel caso di doppio turno (dove gli accordi si fanno al II turno), sia in quello di turno unico, come nel “Mattarellum”, si divide l’Italia in piccoli collegi; in ciascuno di questi vince il candidato che prende più voti.
Il “Mattarellum” premia le coalizioni, quindi si devono fare accordi prima. Ma su che? Sui programmi? Anche, si spera. Ma anche, se non soprattutto, sulla spartizione dei candidati, nei vari collegi all’uninominale, in modo che, poi, in ciascun collegio, tutti gli elettori della coalizione votino anche per candidati di altri partiti. E chi la fa, la spartizione? Gli stati maggiori dei partiti. Più partitocrazia di così!
Né si dica che il proporzionale – quello corretto, almeno – attribuisce uno spoporzionato potere di veto ai piccoli partiti. Vale lo stesso – e di più – nel sistema uninominale, quando non esistono, perché non esistono, due partiti, ma solo due “coalizioni”, per le quali l’1-2% fa la differenza tra vincere e perdere.
La verità è che il sistema dei partiti-casta autoreferente si regge proprio sul maggioritario e/o sul Porcellum. Non a caso proprio un Parlamento eletto col Mattarellum ha approvato il Porcellum, rigettando con motivazioni risibili – non si votano gli emendamenti della maggioranza (motivazione DS) – l’emendamento che avrebbe lasciato le preferenze.
Né maggioritario né Porcellum assicurano né la stabilità, né l’incisività dei governi – e credo che di questo non sia necessaria dimostrazione alcuna. Perché, allora, non appoggiare la proposta di referendum che avrebbe reintrodotto proporzionale e preferenze, ben sapendo che “questi” referendum sono, più che altro, finalizzati a costringere il Parlamento a cambiare la legge, a porre i termini della discussione sulla legge?
La decisione del Comitato promotore “Io firmo” non l’ho condivisa: ha fatto sì che si riducesse la discussione alla scelta tra Porcellum e Mattarellum e questo chiude a una riflessione seria sulla democrazia e sull’Italia in cui ci riconosciamo e che vogliamo.
È stata una resa senza condizioni – e senza valide motivazioni – alla logica partitocratica, che – non a caso e violando il patto di non belligeranza – è immediatamente scesa in campo.
Non ci sto.

GIOVANNA MANCINI